sabato 18 dicembre 2010

ANIM-ALE- ANIM-A- ANIM-ATO

Abbiamo separato con un trattino la radice della parola –anim- ovvero la sua parte non flessiva quale corpo comune e trasversale che caratterizza queste tre parole, la cui etimologia rimanda, in tutti e tre i casi, al soffiare del vento.

Risalire alla radice comune ci permette, dunque, di attraversare il senso intenzionale delle tre parole, suggerendoci l’idea di un senso altro, sedimentato e latente che permette di collegare l’anima, all’animale e all’animato. Senso che riteniamo vada ricercato nell’immagine stessa del soffiare del vento, nel suo evocare l’idea di un movimento: pensiamo al vento fra le foglie, fra i capelli, alle onde del mare… come se la possibilità del corpo di potersi “generare” fosse dovuta ad un movimento, in grado di s-catenarne la presenza.

Questo primo passaggio ci permette quindi di cogliere come la rappresentazione del corpo venga connessa all’idea di movimento, evento quest’ultimo che offre consistenza al corpo, permettendogli di esistere.

L’animale, l’anima, l’animato sembrano a loro volta rimandare a dei mondi, a dei livelli rispetto ai quali prende forma la rappresentazione del corpo. Nello specifico, ipotizziamo che:



- il “livello animale” rimandi ad una dimensione biologico-istintuale situata in profondità: a questo livello il corpo esprime una modalità di funzionamento fatta di reazioni che -sfuggendo al nostro controllo- talvolta si pongono al di fuori della consapevolezza. D’altro canto, questo livello ci permette di elaborare rapidamente una serie di stimoli rispetto ai quali produrre azioni, facendoci sentire connessi con una dimensione emozionale-istintiva di carattere quasi viscerale;

- il “livello anima” abbia a che fare con una dimensione disincarnata che tende ad opporsi al livello animale, situandosi dentro l’involucro-corpo dell’individuo in seguito ad una sua emanazione dall’alto. Ne consegue l’immagine di un corpo controllato dal di dentro, esito di una separazione tra materia e spirito, istintualità e pensiero razionale. Tale separazione, tuttavia, è su questo stesso terreno che può tentare le sue integrazioni, realizzando un incontro tra queste due parti;

- il “livello animato” spinga la rappresentazione del corpo verso il fuori, come se su questo piano fossimo sollecitati ad avere una visione del corpo dal di fuori di noi stessi. A questo livello il corpo non è controllato dal di dentro ma espropriato, acquisito dall’esterno. Su questo piano siamo confrontati con una esperienza maggiormente confacente con i tempi moderni: si pensi all’utilizzo dello spazio virtuale, alle immagini digitali, alle moderne tecnologie, alla telecamera, ecc.

Questi tre livelli ci permettono di entrare in uno spazio di cui queste dimensioni cotituiscono le coordinate. Immaginiamo quindi le rappresentazioni sul corpo come l’esito di un posizionamento del corpo entro questo stesso spazio, quindi, di volta in volta, più vicino ad un livello piuttosto che ad un altro.

Ci preme sottolineare come questi tre livelli disegnino uno spazio orizzontale, dunque, non gerarchico: non vi è, in altri termini, un livello più evoluto, più virtuoso di un altro, o, per meglio dire, il nostro intento non è quello di presentarli secondo una visione evolutiva. Essi semplicemente si intersecano.

Ecco quindi che i tre livelli possono divenire una carta da cui partire per iniziare ad interrogarsi sui propri modi di relazione con il corpo, visualizzando il proprio posizionamento attuale. Un po’ come quelle cartine in terra straniera, dove una freccia ci indica: voi siete qui!







mercoledì 15 dicembre 2010

PERCHE' UN ABECEDARIO SUL CORPO?


Sentiamo necessario tracciare brevemente le coordinate entro le quali iscrivere le riflessioni sul “corpo” che vorremo proporvi attraverso il blog.
Di certo non stiamo proponendo un lavoro scientifico, nondimeno, le nostre vorrebbero essere qualcosa in più che delle semplici suggestioni sul corpo.
Sarebbe cosa diversa chiedere ad un gruppo di monaci cistercensi, che condividono un preciso contesto, piuttosto che a dei pendolari, che pensieri fanno sul corpo, poiché sarebbero presi insieme in un medesimo evento che tendono a condividere. Dal momento che le persone che ci stanno aiutando in questo lavoro, scrivendoci le loro “parole sul corpo”, non condividono alcun contesto se non la rete, i pensieri che stiamo raccogliendo pescano  “semplicemente” entro quella cultura comune che sul corpo ciascuno di noi ha, indipendentemente da un contesto di riferimento.
La ragione per la quale abbiamo proposto un Abecedario sul corpo è perché riteniamo che esso stia al centro delle recenti evoluzioni sociali o meglio che l’evoluzione sociale stia già fabbricando il corpo del futuro prossimo. Tale evoluzione latente, alla quale ogni giorno partecipiamo tutti, ci estrae affetti, sentimenti, vissuti quali “primi corpi” attraverso i quali permanentemente ci costruiamo i nostri corpi sociali. Tracciare delle mappe può essere allora un’occasione per consentire a ciascuno di noi di decidere meno al buio in che direzione andare.

sabato 11 dicembre 2010

ABECEDARIO SUL CORPO -lettera C-

Passiamo alla lettera C. Aspettiamo le vostre parole, evocate da CORPO, che inizino per C. Come già accennato, non sarà facile scegliere, di volta in volta, la parola da trattare nell'ABECEDARIO, vista la densità e la ricchezza delle vostre associazioni.

Continuate a seguirci in questo viaggio e... provate, per quanto possibile, a lasciar andare il pensiero, non preoccupandovi di proporrre stimoli chiaramente connessi al significato della parola...



Grazie a tutte e a tutti,
                                      Studio Psicologico Psicoterapeutico

lunedì 6 dicembre 2010

ABECEDARIO SUL CORPO -lettera B

Passiamo alla lettera B, quindi soltanto parole che inizino per B, evocate da CORPO.
Diamo corpo... alle voci!
Grazie a tutte e a tutti.
Studio Psicologico Psicoterapeutico

 PS: Le parole proposte per la lettera A le trovate tra i commenti del post precedente.

giovedì 2 dicembre 2010

ABECEDARIO SUL CORPO

Stiamo lavorando alla costruzione di un "ABECEDARIO" sul CORPO. Scegliete una parola per ciascuna lettera dell'alfabeto, pensando a TUTTO QUELLO CHE VI VIENE IN MENTE SUL "CORPO". Un verbo, un sostantivo, il nome di qualcuno o qualcosa....
Oggi partiamo con la lettera A, quindi soltanto parole che inizino per A.
Diamo corpo... alle voci.
Grazie.
Studio Psicologico Psicoterapeutico

mercoledì 17 novembre 2010

COPPIA PSICOLOGIA CON-VIVERE: CI PRESENTIAMO



 Abbiamo già avuto modo di accennare come l’obiettivo di questo blog sia quello di presentare il nostro Studio, provando a delineare le premesse teorico-metodologiche che orientano il nostro lavoro, la “visione” della psicologia clinica che sostiene ed organizza la nostra prassi.

Ci piacerebbe, in altri termini, produrre e offrire ai nostri lettori una serie di indizi, indicazioni, utili alla costruzione di una mappa capace di restituire una possibilità orientativa a quanti fossero interessati a conoscerci e/o a contattarci.

Riteniamo, infatti, che il panorama attuale della psicologia italiana ( e non solo ) sia caratterizzato da un forte livello di frammentazione, da un’eterogeneità di posizionamenti solo apparentemente “coperti” dal riferimento ad un linguaggio più o meno comune e che, dunque, possa essere rilevante ed utile sforzarsi di offrire una “visione” capace di fuoriuscire dal contesto degli addetti ai lavori, e raggiungere anche coloro che non si occupano di psicologia.

Vorremmo partire dal patchwork, il logo del nostro Studio:



Come molti sapranno, il patchwork –letteralmente lavoro con le pezze- è un manufatto che consiste nell’unione, tramite cucitura, di diverse parti di tessuto, al fine di ottenere un oggetto, per la persona o per la casa, con motivi geometrici o meno. Il patchwork, dunque, suggerisce l’immagine di un processo che va costituendosi a partire dall’unione di pezzi-parti diverse che danno vita ad un prodotto non prevedibile a priori.

Ci è parso, questo, un modo efficace e calzante per provare ad evocare l’idea del percorso psicoterapeutico, inteso quale spazio di lavoro attraverso il quale ciascuno, faticosamente, può tentare di estrarre la propria voce e produrre, condurre, la propria opera, aprendosi al riconoscimento e alla realizzazione di pensieri e possibilità impensate.

 

Ma il patchwork, oltre ad evocare la nostra visione del lavoro psicoterapeutico, ci riporta anche alle nostre storie formative e professionali, nonché all’incontro e all’intreccio tra due percorsi di vita, esitato nella costruzione di una strada comune che ha portato, passo dopo passo, alla nascita dello Studio Psicologico Psicoterapeutico. Ci sembra infatti importante sottolineare come la scelta di aprire insieme uno Studio non nasca da una mera giustapposizione di competenze ed intenti, ma da un percorso di confronto, scambio e condivisione sviluppatosi negli anni; percorso che ci ha visto divenire coppia nella vita, prima ancora che nel lavoro.

Spesso ci è stato domandato da amici, colleghi, come ci vivessimo l’essere una coppia non solo nella vita ma anche nel lavoro; un lavoro, fra l’altro, quello dello psicologo, che l’immaginario collettivo tende a popolare di considerazioni variegate, prese entro uno stato che resta ancora confuso. Se la psicologia si offre come un composto i cui ingredienti restano, per certi versi, ancora misteriosi, cosa succede quando due psicologi formano una coppia? Che miscela –che patchwork- ne salterà fuori?

Tutti noi siamo abituati a ricevere, ad entrare in contatto, con delle ricette che qualcuno prima di noi ha elaborato, rispetto alle quali si è provato nella selezione degli ingredienti, il dosaggio, l’aggiunta di un nuovo elemento. Tutti noi nel corso della giornata, condiamo continuamente i nostri momenti a lavoro, in famiglia, con gli amici, nel traffico, sulla rete, ecc.: ci cuciniamo, fuor di metafora, nella convivenza alla socialità. 
Ecco, noi due ci siamo scelti non a caso, piuttosto il caso ci ha dato l’opportunità di sceglierci e di comporci come due insiemi di ingredienti, rispetto ai quali abbiamo di volta in volta dovuto con fatica setacciare, raffinare, provare, sperimentare, costruire i nostri gusti non meno dei nostri sapori.
La formazione universitaria comune, ovvero la scelta di quel contesto professionale con il quale ci identifichiamo, ove ci sentivamo più spinti da un desiderio che potesse vedere proprio in quel luogo il trampolino dal quale spingerci per la nostra avventura, ci ha fatto incontrare, ci ha fatto amare, quello che siamo, quello che facciamo, offrendoci l’impegnativa ma appassionante possibilità di lavorare amandoci, e amarci lavorando.
Da lì in poi, la nostra avventura professionale, all’università, nella formazione, al DSM, nella Scuola, in ambito psicoterapeutico -perché è quella che qui vogliamo offrire in figura- è stata attraversata dall’impegno costante a mettere i nostri interlocutori nella condizione di rendere i problemi che ci portavano delle chances da utilizzare per sperimentare nuove occasioni di convivenza.

Convivere significa per noi scegliere e governare le linee  di insiemi di ingredienti da utilizzare per preparare forme di socialità entro un determinato contesto. La convivenza, allora, più che porsi quale punto di partenza da poter dare per scontato, si configura nei termini di un obiettivo da costruire  attraverso lo sviluppo di una competenza.
I problemi che in qualità di psicologi e psicoterapeuti affrontiamo nel lavoro, li facciamo rientrare, quindi, in questa visione politico-professionale, poiché, per quanto ci riguarda, non possiamo e quindi non vogliamo, prescindere e nasconderci da una visione che inevitabilmente, anche quando più camuffata, offriamo sempre all’esterno. Visione, quest’ultima, che in linea con i tempi offerti dalla nostra modernità ci preme affrontare criticamente nel lavoro clinico che svolgiamo, perché possano svilupparsi maggiori competenze a trattare i contenuti che popolano le nostre moderne convivenze.   

Trattare e situare le domande psicologiche dei nostri clienti entro l’area della convivenza significa quindi produrre una connessione tra il mondo interno dell’individuo (il suo Dentro) e il Fuori delle sue relazioni con i contesti di appartenenza, al fine di produrre un’apertura che permetta di fuoriuscire dalle secche della passività e dell’impotenza che solitamente caratterizzano ed organizzano una  rappresentazione del proprio problema-disagio concettualizzata nei termini di “problema psicologico”, dunque, deficit da correggere, malattia da curare, o parte malata-cattiva da eliminare.

           

mercoledì 3 novembre 2010

La psicologia produce convivenza, conduce sviluppo


a cura di Massimiliano Stinca e Silvia Lombardi

 Ciascuna professionalità, al di là del fatto di essere accomunata alle altre in funzione della propria vocazione alla vendita di uno determinato prodotto, si qualifica contemporaneamente come specifica, in quanto offre quel prodotto e non un altro. Se per alcune professioni l’oggetto della propria prestazione è chiaramente ostensibile, per altre esso si qualifica come forma di sapere in grado di determinare uno stato di realtà socialmente condiviso e legittimato. Se il meccanico quindi ripara la nostra automobile, quest’ultima si mostra come l’oggetto sul quale la sua competenza esprime nel tempo la sua forza. Se il medico cura il mio mal di pancia, attraverso il farmaco “aggiusta” la mia pancia. In questi casi, ciò che preme sottolineare è la possibilità, da parte nostra, di creare una separazione tra la cosa (l’automobile, la pancia) e “noi stessi”. Come se queste parti potessero occupare un posto esterno rispetto a noi stessi,  di cui un altro, diverso da noi, si potrà curare. La nostra funzione partecipante, in questo caso, si limita alla verifica del risultato che l’altro è stato in grado di conseguire. Verifica che, in questa circostanza, muoverà la sua indagine su due dimensioni: funziona-non funziona.
Proviamo adesso a spostarci su un altro genere di professioni. Pensiamo all’architettura, alla politica, alla avvocatura, alla psicologia. Questo genere di professioni, possono tranquillamente mettersi nell’ottica di funzionare come le professioni su indicate, anzi ad alcune di esse fa molto comodo funzionare in tal modo, con l’unica differenza di non poter disporre, nella loro prassi, di uno stato generale a monte inteso come risultato finale che inequivocabilmente si sposi bene con tutti quelli che gli si rivolgono. Avere mal di pancia a Roma o a Foligno, non fa alcuna differenza per il medico che intenda occuparsene. Lo stesso vale per la riparazione dell’automobile. In questi casi, la procedura competente può ripetere all’infinito il suo esercizio, anche se per poter ottenere il suo risultato necessita di mezzi di volta in volta diversi.
Pensiamo invece per fare un esempio all’avvocatura. Immaginiamo di schiacciare la sua vocazione ad esercitare la giurisprudenza entro situazioni complesse, su qualcosa del tipo: mi voglio vendicare. Quale sarebbe in questo caso lo stato di realtà da perseguire perché la vendetta trovi la sua risoluzione, il suo completamento? Pensiamo a quei casi di risarcimento danni, a quelli per l’assegnazione dei figli. Tutti casi questi ove, quando si tenta di piegare la richiesta entro un'economia emozionale del tipo “funziona- non funziona”, si rischia di perdere gli strati di quella realtà che articolano la richiesta stessa conferendogli la sua piena consistenza. Dal nostro punto di vista, come psicologi, sono proprio questi strati a formare la domanda alla quale provare a dare risposta, rispetto alla quale tentare una inseminazione, attraverso una relazione che sia, più faticosamente, fabbricatrice di una nuove forme di convivenza. Le professioni che abbiamo appena indicato, a cui abbiamo, per vocazione modellistica e di pensiero, affiancato la psicologia, costituiscono l’hardware ed il software della convivenza.
Produrre convivenza, è l’espressione di una forma di domanda che necessita di modelli professionali di analisi della domanda del cliente per poter essere presa in carico. Quando si legga professionalmente la domanda di un cliente come una domanda che chieda modelli altri per accedere alla propria realtà contestuale, siamo in presenza di una domanda di sviluppo
Immaginare di avere una domanda sul proprio sviluppo nella vita è più faticoso ma più pericoloso, in quanto costringe l’offerta che riceviamo a doversi inevitabilmente evolvere insieme a noi. Pensarsi come qualcuno con una domanda di sviluppo, significa configurare un orizzonte in grado di ospitare una terra incognita e flettere le proprie forze per renderle delle traiettorie. Svilupparsi, in altri termini, =catapultarsi.                   

sabato 23 ottobre 2010

A proposito del benessere....

Per una rilettura critica del rapporto tra psicoterapia e benessere
a cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca


Partiamo, ancora una volta, dalla parola, nell'ipotesi che questa possa funzionare nei termini di uno stimolo capace di produrre, evocare una serie di associazioni mentali, vissuti, immagini, pensieri, riconducibili alle specificità del proprio mondo interno nonchè a "dimensioni culturali", legate al contesto d'appartenenza.

Partire dalla parola, può significare, ad esempio, chiederci cosa ci viene in mente, ogni volta che pensiamo alla parola "benessere"; eccoci dunque condotti entro un'area organizzata attorno all'idea dello "stare-sentirsi bene"... area che sembrerebbe richiamare contesti quali il "centro benessere", o magari il "centro fitness", non meno che il nome di alcune testate femminili incentrate, non a caso, su argomenti di "salute, bellezza e benessere".
"Star bene" che si organizza attorno ad azioni di presa in carico del proprio corpo e di un non meglio specificato "equilibrio" tra mente e corpo, attraverso una serie di pratiche, di attività tendenzialmente finalizzate alla scarica di una tensione, piuttosto che alla realizzazione-incremento di una condizione di rilassamento. "Star bene" che, tra le altre cose, sembrerebbe implicitamente evocare l'idea di un modello comportamentale virtuoso, capace di restituire o magari produrre ex-novo una condizione di benessere , appunto, decisamente standardizzata e definibile a priori.

Proviamo a fare un passo avanti, introducendo un'ulteriore questione: può, e in che termini e con che tipo di conseguenze, la psicoterapia mettersi in rapporto con la questione del benessere?
Ci appare, questo, un punto importante da sottolineare, nonostante tenda ad essere bypassato.
Chi scrive ritiene che mettere in rapporto l'area psicoterapica con l'area del benessere, definendo quest'ultimo l'obiettivo dell'intervento psicoterapico, tenda ad istituire -su di un piano emozionale (il più delle volte implicito e non consapevole) una sovrapposizione tra intervento psicoterapico e quell'"area-benessere" precedentemente delineata. Ciò significa, in altri termini, proporre e produrre una rappresentazione della psicoterapia quale prassi principalmente orientata a promuovere lo "star bene" dell'altro... non meno di quanto non faccia un centro benessere, o una palestra.

Noi, in accordo con una serie di premesse teorico metodologiche proprie di una specifica visione della Psicologia Clinica, riteniamo, viceversa, che il benessere si configuri come un'auspicabile conseguenza di un percorso psicoterapeutico, ma non certo come uno dei suoi obiettivi. 
A costo di apparire provocatori, ci pare infatti rilevante sottolineare come il lavoro psicoterapeutico-almeno così come noi lo concettualizziamo- si proponga di rendere possibile lo sviluppo di pensieri im-pensati, operazione, quest'ultima, che non ha nulla di rilassante, o rassicurante, risultando, piuttosto anche faticosa e dolorosa. Il cambiamento si pone come un "cambio di assetto" che passa necessariamente attraverso un'operazione di destrutturazione-ricomposizione della propria visione, evidentemente non prevedibile-definibile a priori. 
Lo sviluppo di gradi maggiori di autonomia, di una competenza ad orientarsi emozionalmente entro i propri rapporti con i contesti di vita, di una conoscenza di sè più accogliente e disincantata rappresentano, a nostro avviso gli obiettivi metodologici di un lavoro psicoterapeutico: obiettivi che mirano a realizzare possibilità di rapporto con se stessi e con la realtà più adattive, ma che ci appare improprio e problematico schiacciare nell'area del benessere.

In conclusione, vale forse la pena sottolineare come le riflessioni critiche qui presentate non intendano liquidare, nè tantomeno negare l'importanza di quella che abbiamo definito "l'area del benessere", nonchè degli interventi non psicologici ad essa connessi, bensì -ripetiamolo ancora una volta- esplicitare la necessità di una non scontata sovrapposizione tra tale area e intervento psicoterapeutico.





giovedì 14 ottobre 2010


 
Riflessioni attorno al rapporto tra psicoterapia e salute
-Per una definizione della salute come possibilità integrativa-
  
 A cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca

Obiettivo di questo scritto è provare ad esplorare il rapporto tra psicoterapia e salute, evidenziando come questo possa declinarsi lungo linee diverse, riconducibili a differenti rappresentazioni dell'idea di "salute", nonché della funzione psicologico-clinica. Ci appare, questa, una questione importante da trattare, al fine di provare a delineare le specificità metodologiche che organizzano il nostro lavoro e, conseguentemente, la nostra proposta psicologico-psicoterapeutica.
Proviamo, dunque, a partire da alcune domande; domande che, come già accennato, non esitano in una risposta univoca e, come tale, scontatamente liquidabile. In che termini l’ambito psicologico-psicoterapeutico ha a che fare con la “salute”? E, ancora, cosa intendiamo per “salute”?
Procederemo nella nostra riflessione assumendo un vertice clinico, la cui premessa teorico-metodologica di base potrebbe essere così formulata: non esistono eventi emozionalmente neutri, dunque, i processi di conoscenza-relazione con la realtà sono sempre processi di tipo affettivo-simbolico.  

 Avvicinare la questione della salute porta in figura anche la questione della malattia, che sembrerebbe porsi quale inevitabile rovescio della medaglia, evocando un confronto tra due parti.
Mario Bertini, nel suo articolo “Psicologia della Salute e Psicoterapia,”[1]delinea due modalità di concettualizzare –e simbolizzare emozionalmente- la relazione tra queste due “aree”; aree che possono essere pensate nei termini di due diverse posizioni: una, rappresentabile sottoforma di un continuum che dal polo della normalità, scivola gradualmente verso il polo della patologia; l’altra, organizzata bidimensionalmente, con le due dimensioni della salute e della malattia “relativamente indipendenti, ma di fatto, intrecciate ed interdipendenti” [2](M. Bertini, 2001, 2008). Se la prima, dunque, suggerisce una modalità di rapporto fondata su di una logica esclusivo-disgiuntiva (presenza dell’una, assenza dell’altra), la seconda sembrerebbe aprire alla creazione e al riconoscimento di uno spazio più ampio, capace di com-prendere, accogliere, tanto la dimensione della salute, che quella della malattia.
Queste due posizioni, esitano in due diverse rappresentazioni della salute:

1) la salute come assenza di malattia
La logica esclusivo–disgiuntiva propria di tale rappresentazione- appare organizzata attorno a fantasie di eliminazione delle “parti malate”, attraverso un rafforzamento delle “parti sane”. Sulla base di tali premesse, la promozione della salute finisce per dispiegarsi lungo linee di funzionamento isomorfe a quello stesso modello medico (la malattia come assenza di salute) che, sul piano intenzionale, tale posizione dichiara di voler attraversare. La logica escludente, infatti, col suo non lasciar spazio alla possibilità di una co-presenza, finisce per schiacciare rigidamente il rapporto tra salute e malattia sul terreno dello scontro, del conflitto, anche quando viene utilizzata per lavorare sulle risorse delle persone, mettendo apparentemente sullo sfondo la questione della malattia. L’articolo di Colombo e Goldwurm, “Psicologia Positiva e Psicoterapia” (2007) si situa entro la posizione che si sta provando a delineare, offrendo ulteriori spunti di riflessione (il corsivo è nostro):

  L’emergere della psicologia positiva è avvenuto in contrapposizione al modello medico della malattia mentale e alla forte enfasi sullo sviluppo dei problemi e della loro risoluzione, caratterizzandosi per l’attenzione alle caratteristiche personali che permettono di vivere bene (…) la psicologia positiva oggi vuole superare l’antitesi tra positivo e negativo, tipica della cultura occidentale, e proporsi come una prospettiva da cui studiare l’essere umano in tutte le sue sfaccettature (…) ecco quindi che in quest’ottica è possibile applicare la prospettiva della psicologia positiva nella disabilità e nella psicopatologia, negli interventi di prevenzione e di terapia…”

 Gli autori individuano dunque nel “superamento dell’antitesi tra positivo e negativo” l’obiettivo, per così dire programmatico, della psicologia positiva, ma in che termini stanno organizzando il rapporto tra salute e malattia? Il fatto che parlino di una possibilità “applicativa” di tale prospettiva nell’ambito della psicopatologia riporta in figura l’idea di una scissione tra l’area della salute e quella della malattia, pensate nei termini di territorialità che si auto-escludono. Ma, allora, come viene concettualizzata l’idea del superamento dell’antitesi? Colombo e Goldwurn sembrerebbero dirci che la psicologia positiva, con il suo focus su risorse e potenzialità dell’individuo, può occuparsi anche di malattia, ma che quest’ultima, come vedremo, non può che essere pensata quale parte –separata- da ridurre o eliminare. Citano, a tal proposito, come “un buon esempio per la psicologia positiva”, il programma di Fordyce (1977, 1983) per incrementare la “felicità”, i cui obiettivi vengono così definiti: “ eliminare sentimenti negativi e problemi, smettere di preoccuparsi, sviluppare pensieri ottimistici e positivi, sviluppare una personalità socievole, essere orientati sul presente, essere più attivi, migliorare i rapporti intimi”. Potremmo, dunque, parlare di un’antitesi effettivamente “superata”, ma non attraversata, intendendo l’attraversamento un processo che funziona lungo linee a carattere espansivo-inclusive. La premessa teorica, trasversale ai diversi contributi presentati nell’articolo, appare organizzata attorno all’idea di risorse concettualizzate come punti di forza dell’individuo che possono contrastare lo sviluppo della patologia (Seligman, 2002), attraverso l’organizzazione di un controllo. E’ evidente la centralità rivestita dal modello cognitivo-comportamentale entro tale prospettiva: non a caso, gli autori, appartenenti a questa area, analizzano le connessioni esistenti tra psicologia positiva e psicoterapia, facendo riferimento al modello psicoterapeutico cognitivo-comportamentale. L’ancoraggio a tale modello organizza una rappresentazione dell’intervento di promozione della salute –non meno che di psicoterapia- quale “programma”, strutturato, direttivo, orientato alla soluzione dei problemi, ed educativo.  Questo ci riporta alla questione del rapporto tra la dimensione teorica dei propri modelli d’intervento, e la modalità di relazione –dunque di simbolizzazione- degli stessi. L’ipotesi che si propone, è che possa essere rilevante riconoscere e differenziare un piano intenzionale –riconducibile ad una sorta di dichiarazione d’intenti, da un livello emozionale. Riconoscere questo doppio livello, permette, in questo caso, di cogliere una rappresentazione del superamento dell’antitesi tra positivo e negativo che non propone un attraversamento di tale dicotomia, bensì immagina di affiancare l’area della salute a quella della malattia, rafforzando la prima, al fine di ridurre-controllare la seconda. Ne consegue una necessità di tipo normativo, che, attraverso l’individuazione di dimensioni valoriali, si propone di promuovere entro i contesti d’intervento –ancora una volta, anche psicoterapeutici- lo sviluppo di “dimensioni positive di salute”. 

In conclusione di questa prima parte, appare rilevante accennare alla questione del cambiamento: gli elementi che sono andati via via emergendo, entro lo scenario del “modello salute” come assenza di malattia, organizzano una rappresentazione del cambiamento quale processo trasformativo, teso al raggiungimento di uno stadio predefinito, muovendo da una simbolizzazione della salute nei termini di stato ideale acontestuale, perché dato a priori, verso cui l’altro (sia esso un singolo individuo, un gruppo, un contesto organizzativo…) è guidato-condotto.
Il cambiamento, dunque, come processualità che si tenta di prevedere/controllare, a partire da una rappresentazione dell’individuo come soggetto “attivo”, ma certamente non “autonomo”[3]. Basterà qui ricordare come la dimensione dell’attività, pur ponendosi quale superamento della passività dell’individuo teorizzata dal comportamentismo, rappresenti il polo positivo del medesimo continuum,  organizzato attorno all’idea di un rapporto individuo-contesto che si dispiega lungo le linee dell’apprendimento e dell’elaborazione dell’informazione. La dimensione dell’autonomia, invece, attiene la rappresentazione della salute che qui di seguito verrà delineata.

2) La salute come possibilità integrativa.
Passiamo  ora ad analizzare il modello di salute che chi scrive sta tentando di delineare; modello che orienta la nostra prassi d'intervento implicando, tra le altre cose, una specifica concettualizzazione del cambiamento.
La logica che sostiene ed organizza questa rappresentazione della salute si fonda su di una modalità di funzionamento che definiamo a carattere espansivo-inclusivo, esito dell’attraversamento di modalità di funzionamento a carattere “esclusivo-disgiuntivo”. In tal senso, si potrebbe concettualizzare l’obiettivo metodologico dei processi di salute proprio nei termini di un incremento della modalità di funzionamento espansivo-inclusiva. Incrementare tale modalità significa organizzare spazi –interni e reali al contempo- entro cui accettare e riconoscere anche le zone d’ombra (la “malattia”), organizzando le premesse per lo sviluppo di modalità di rapporto tra le parti di carattere integrativo. 
Si propone l’ipotesi che lo sviluppo di processi di salute così concettualizzati, non passi attraverso l’applicazione di tecniche, bensì si ponga quale esito di un processo d’integrazione che renda possibile lo sviluppo di un’ottica della salute, attraverso cui accompagnare e facilitare processualità co-costruite, sospendendo le proprie quote di potere-controllo, grazie all’emergere di una fiducia nel processo.
La rappresentazione della salute – o della malattia- quale “dato di fatto”, esita in una reificazione della stessa, trattata alla stregua di dato reale-oggettivo, rispetto al quale organizzare un controllo della sua “presenza-assenza”. Ecco che le stesse “emozioni negative”, come emerge nel programma di Fordyce, citato in precedenza, divengono quelle parti malate rispetto alle quali l’unico tipo d’intervento possibile, procede lungo le linee della riduzione-eliminazione. Ecco, inoltre, come il livello sul quale intervenire, al fine di produrre un cambiamento, non può che essere quello dei comportamenti.  
Viceversa, l’assunzione di un vertice clinico, aprendo alla possibilità di uno spostamento sul piano del vissuto, permette di sentire e pensare salute e malattia quali dimensioni emozionali rispetto alle quali organizzare un riconoscimento ed un’accettazione. Se tale possibilità può apparire, forse, più immediatamente “accettabile” sul fronte delle emozioni cosiddette “positive”, potrebbe invece non risultare così scontata sul versante delle emozioni “negative”, proprio in ragione di una loro simbolizzazione affettiva nei termini di “parti malate”.
Porre al centro del lavoro con e sulle emozioni la dimensione dell’accettazione, permette di riconsiderare il rapporto emozioni-pensiero da un vertice d’osservazione ulteriore, organizzato attorno al riconoscimento e alla valorizzazione della dimensione del sentire. Sentire che, nel suo porsi nei termini di dimensione ponte tra l’emozionalità agita e quella consapevolizzazione utile allo sviluppo di un pensiero sull’emozione, apre ad una possibilità espressiva, situabile su di un livello esperienziale. Da un punto di vista metodologico, le competenze che si sta tentando di delineare si configurano come  l’esito di un processo d’integrazione tra dimensioni esperienziali, emozionalità e pensiero.
Ecco, quindi, che lo spazio della relazione con l’altro resta sì uno spazio entro cui promuovere lo sviluppo di un pensiero, ma diviene anche uno spazio entro cui accogliere, riconoscere ed utilizzare dimensioni espressivo-esperienziali non necessariamente situabili sul piano della parola.  
Accettazione e cambiamento potrebbero apparire, almeno entro la nostra cultura, dimensioni quasi antitetiche, in ragione di una rappresentazione dell’accettazione nei termini di resa, sospesa tra la passività e lo stoicismo. Il modello d’accettazione qui brevemente delineato, rimanda, invece, ad un arrendersi che si pone quale esito dell’attraversamento di una fantasia di controllo, e quale ampliamento delle proprie possibilità di scelta, a partire dal riconoscimento dei propri limiti. L’idea di cambiamento che ne deriva, sembrerebbe “modulare” la forte enfasi sull’individuo, sul “potere” dei processi di pensiero, sul primato degli obiettivi rispetto alle processualità che li rendono possibili, organizzando un decentramento che, proprio grazie all’accettazione di un limite, apre allo sviluppo di possibilità di salute più autentiche.


[1] Bertini, M. (2007), “Psicologia della salute e psicoterapia”. In “Interazioni”, 2/2007.


[2] Bertini, M. (2001, 2007)

[3] cfr. Guerra, G. (2004), “Che cos’è un fatto clinico”, in Psychologie clinique, Nouvelle serie n.17.

[4] “Si tratta, dunque, non di cambiare la teoria psicologica al variare del contesto, bensì di disporre di un orientamento metodologico variamente compatibile con le caratteristiche del mandato e con le possibilità offerte dal contesto in cui si interviene (…) competenza che possiamo definire come capacità di promuovere un pensiero sull’accadente che consente di dare senso alla relazione (…) se si va oltre il sintomo, in ambito psicologico, non si incontra infatti la patogenesi e l’eziologia della forma morbosa; si incontra, invece, quale prima e rilevante fenomenologia, la domanda che è stata rivolta allo psicologo; una domanda che prefigura effettivamente quello che si potrà fare insieme.” (Montesarchio, G., Venuleo, C., 2005)