sabato 3 settembre 2016

La relazione di coppia

-Dalla dipendenza tossica, alle forme dello scambio-


E. Hopper, Room in New York, 1932


Ci confrontiamo, nel quotidiano lavoro terapeutico, con racconti della vita sentimentale di coppia, spesso caratterizzati da scarsa conoscenza reciproca, mancanza di progettualità, assenza di interessi comuni entro cui coinvolgersi, legami stringenti che si trasformano, talvolta, in forme di relazione quasi tossiche. La coppia diviene, a queste condizioni, uno spazio ove riversare le proprie personali frustrazioni, che insieme a quelle del partner sono in grado di generare malcontento ed esasperazione. Si ha bisogno, in questi casi, del proprio partner non tanto come qualcuno con cui scambiare, piuttosto come di un alleato persecutore (il paradosso è d’obbligo) di cui non si può fare a meno, ma che viene considerato, contemporaneamente, responsabile delle proprie sofferenze. L’altro -o naturalmente l’altra- diviene a tutti gli effetti un compagno di sventura. 
La forma che tende assumere la relazione ricorda la tossicodipendenza. 
Lui è importantissimo per me. Ne ho bisogno in modo assoluto, ma la dipendenza che mi fa sentire è talmente forte che avverto anche la necessità di liberarmene, perché sento anche quanto questo rapporto mi faccia male…” 
Questo potrebbe essere l’esempio di un pensiero sulla propria coppia fatto da una paziente in terapia. Ecco allora che il timore della dipendenza si fa forte, si ricercano degli spazi propri dove rifugiarsi, evitando così di sentire quel legame come qualcosa che vincoli troppo, che non faccia sentire liberi!
Constatiamo quanto intorno all’espressione e all’esperienza della dipendenza circolino fantasie persecutorie; posizione relazionale di cui dover fare possibilmente a meno, in quanto ricondotta ad una condizione che fa sentire fragili, vulnerabili, alla mercé dell’altro. 
La parola stessa dipendenza tende, anche a livello di senso comune, ad assumere immediatamente una valenza problematica, negativa, laddove, invece, nella sua accezione originaria, segnala quell’esperienza di interconnessione profonda che caratterizza la relazione stessa. Per dirla in altri termini, non ci si può sentire dentro una relazione senza avvertire di dipendere dall’altro!
Ma come viene vissuta e sentita questa esperienza di dipendenza all’interno della coppia? A che tipo di fantasie ed emozioni si associa l’idea stessa del legame? Quanto ci si sente interconnessi o, viceversa, soli nel vivere il rapporto di dipendenza?  Quanto ci si sente con-fusi, dentro un’intimità che minaccia i confini? 
E’ a partire da interrogativi di questo tipo che tentiamo, all’interno dello spazio terapeutico, di avviare una riflessione che permetta ai nostri interlocutori di pensare la propria coppia ed il proprio modo di stare (o non stare…) all’interno di una relazione. 
Riteniamo che, aldilà delle diverse problematiche e specificità che ciascuna situazione clinica presenta, l’elemento comune a tutte le relazioni di dipendenza tossica, sia rappresentato dal fatto che questi legami assomiglino molto alla relazione che il bambino piccolo instaura nei confronti dell’adulto; una relazione dove il bambino non sembra avere molta voce in capitolo; una relazione dove si subisce l’altro piuttosto che promuovere lo scambio, non trattandosi, naturalmente, di un rapporto tra pari. 
Nella relazione genitoriale, l’adulto e il bambino non sono sullo stesso piano, in quanto quest’ultimo non è ancora competente a costruire il bene proprio ed il bene reciproco. 
Per dirla in termini più semplici, il bambino non ha ancora sviluppato gli strumenti affettivi e relazionali per prendersi cura di sé, a partire da un riconoscimento dei propri bisogni e desideri. Alla luce di questo stato delle cose, non può certamente neanche prendersi cura dell’altro e della relazione! Le relazioni con gli adulti di riferimento si configurano come i luoghi dove potenzialmente il bambino ha la possibilità di maturare queste competenze. 
Il grado di sviluppo di tali strumenti affettivi dipende dalla storia di ciascuno, e dalla storia  proprie relazioni significative. E’ con questi strumenti, che possiamo immaginare nei termini di un bagaglio affettivo, che l’adulto costruisce e si posiziona entro le sue relazioni.
Riteniamo che la fatica e la ricchezza -due facce della stessa medaglia- connaturate alla relazione di dipendenza siano espressione di un lavoro che insieme svolge la coppia ove l’obiettivo sia quello di generare, progettare, costruire e proteggere il bene reciproco prodotto dalla coppia stessa. Al contrario, ci si ritrova ad esprimere il disagio di chi non è in grado di produrre, intanto, il bene proprio. 
Aiutare quindi, in psicoterapia, chi esprime questa difficoltà, significa offrire l’opportunità di implicarsi in una relazione di dipendenza dove si possano promuovere lo sviluppo e la presa in carico dei propri interessi ed obiettivi; premessa indispensabile affinché la relazione possa tenere nel tempo, in funzione di una maggiore capacità contrattuale che possa sì legarci all’altro ma senza stritolarci.  

martedì 19 luglio 2016

L’ansia e la paura di avere paura


  
-Una riflessione sull’ansia, segnale che chiede di essere accolto e narrato per poter essere attraversato- 

W. Sasnal, senza titolo


Spesso le persone che ci contattano allo Studio motivano la loro richiesta di aiuto definendosi ansiosi o lamentando di soffrire di ansia, magari sulla base di una diagnosi proposta loro dal medico di base. Nel consegnarci questa parola è un po’ come se sentissero di averci già detto tutto; come se, a quel punto, non vi fosse molto altro da aggiungere, tanto è vero che poi si fermano, restando in attesa. L’ansia sembra allora diventare un oggetto pesante ed inquietante da consegnare al terapeuta, nella speranza che questi possa farsene carico e farlo sparire dalla circolazione nel modo più rapido ed indolore possibile. In situazioni di questo tipo, l’aspettativa del paziente è quella di eliminare o quantomeno ridurre il sintomo-ansia, così da recuperare una condizione di benessere e ritrovare la serenità. E’ gia su questa premessa che il modello d’intervento medico e quello psicoterapico (quantomeno quello di tipo psicodinamico nel quale ci riconosciamo) si differenziano prendendo due strade diverse. 
Tornando all’immagine dell’ansia come oggetto pesante, il nostro obiettivo è quello di sostenere ed accompagnare il paziente in un percorso di scoperta e conoscenza, mettendoci entrambi in una posizione interrogativa, che provi a non dare nulla per scontato. 
Di che cosa mi parla quest’ansia che avverto? Come posso provare a raccontarla? A quali pensieri, fantasie ed emozioni si associa? Da quanto la sento parte di me? Che ruolo e che spazio ha avuto nella mia storia? 
Questo è solo un esempio delle domande che possono emergere in una fase iniziale di esplorazione ed analisi della domanda; interrogativi che non sarebbe possibile né utile affrettarsi a chiudere con delle risposte, ma che, piuttosto, hanno l’obiettivo di aprire uno spazio, all’interno del quale -insieme- stabilire un contatto con un questo sintomo-segnale che sta tentando di comunicare qualcosa. Ecco, allora, che l’ansia smette di essere un’etichetta che nel suo dire tutto, rischia di non dire nulla, ed inizia a riempirsi di un senso che può essere pensato, narrato e condiviso all’interno dello spazio terapeutico. 
All’inizio di una psicoterapia, la persona con un problema di ansia tende a non trovare le parole per descrivere questa sua sensazione, che, non a caso, si situa al confine tra il livello corporeo e quello emotivo: il fatto stesso di usare espressioni come “ho l’ansia”, o “sono un soggetto ansioso”, ci riporta ad una rappresentazione di tale condizione come evento inspiegabile che colpisce dall’esterno, o come tratto di personalità che caratterizza l’altro da sempre, perché si è fatti così. 
Attraverso il lavoro terapeutico, l’ansia diviene pensabile, può essere tradotta in parole, e connessa a dei contenuti specifici, che permettono alla persona di sentirsi meno smarrita e disorientata, entro una sensazione vaga ed indefinita. Pensiamo questo percorso di elaborazione nei termini di un attraversamento dell’ansia che, quindi, non si configura come un sintomo da eliminare, ma, semmai, come un oggetto -indubbiamente problematico- con il quale imparare a fare i conti e a gestire nel migliore dei modi possibili.  
Il nostro intento è quello di aiutare l’altro a non avere paura di entrare in contatto con questa sensazione, fuoriuscendo dalla fantasia che il cambiamento -e la possibilità di stare meglio- siano legate al raggiungimento di una situazione di eliminazione completa dell’ansia dalla propria vita, obiettivo, questo sì, abbastanza problematico! 
Ci torna in mente il caso di una paziente che si era rivolta ad uno di noi due perché letteralmente paralizzata da un ansia divenuta sempre più pervasiva che l’aveva bloccata, inducendola a ridurre sempre di più il raggio delle sue azioni e la gamma delle sue esperienze, per evitare di sentire l’ansia. Un passaggio cruciale del lavoro ha avuto proprio a che fare con la possibilità di iniziare a pensare l’ansia come una parte di sé che chiedeva di essere accolta, riconosciuta, rassicurata e non più combattuta. Il cambiamento, per questa donna, ha significato sentire di poter andare incontro alla realtà, accettando di farlo con le proprie risorse e anche con le proprie fragilità -ansia compresa- senza avere più paura di avere paura. 

Silvia Lombardi, psicologa, psicoterapeuta, specialista in psicologia della salute
Massimiliano Stinca, psicologo, psicoterapeuta, specialista in psicoterapia dei gruppi

Territorio e convivenza



Riportiamo, qui di seguito, il primo articolo della nuova rubrica settimanale di psicologia - la psicologia nel territorio- a cura dello studio psicologico psicoterapeutico, presente su Urloweb.com.



-La psicologia come professione al servizio della convivenza -

Parte oggi, su Urloweb.com, la nuova rubrica di psicologia; vorremmo provare a presentarla ai lettori iniziando dal titolo: “la psicologia nel territorio”. La scelta di mettere in relazione queste due parole - psicologia e territorio- nasce dal desiderio di sottolineare, sin da subito, la vocazione psicosociale della psicologia clinica che abbiamo in mente. Il suo porsi come scienza che si occupa della convivenza e che si propone di promuoverla. Una definizione di psicologia che pone quindi l’accento sulla relazione con il Fuori dei contesti, piuttosto che sui problemi interni di un individuo, considerato isolatamente. Ci teniamo a sottolineare come questo tipo di premessa non significhi certo non occuparsi dell’individuo, dei suoi sintomi e dei suoi problemi, ma proporsi di andarli a ridefinire, situandoli all’interno delle relazioni con i propri contesti di vita. Al tempo stesso, mettere al centro il tema del convivere, determina un allargamento del raggio di intervento della psicologia, riconoscendo alla funzione psicologico-clinica strumenti e competenze per leggere anche aspetti e problemi propri della realtà attuale. Ma cosa intendiamo per convivenza e, di conseguenza, quali questioni e problematiche possono essere ricondotte entro tale area? Riteniamo sia utile considerare la parola "convivenza" nella sua accezione più ampia e volutamente vaga: ogni volta che siamo alle prese con l’estraneità -dunque in rapporto con qualcuno o qualcosa che è altro da noi- ci troviamo dentro l’ambito del convivere. Pensiamo al genitore preoccupato per il cambiamento repentino del figlio adolescente; alla donna che, dopo anni vissuti entro una relazione a suo dire idilliaca, racconta smarrita ed amareggiata di non riconoscere più il proprio compagno; ad un viaggio in un paese straniero e allo scarto tra le proprie aspettative e la realtà che ci si presenta; al tema dell’immigrazione e alle fantasie e timori che evoca nell’opinione pubblica; alla complessità, ricca di potenzialità ma anche di insidie, dei processi di integrazione, e l’elenco potrebbe continuare. Questioni apparentemente lontanissime le une dalle altre, eppure accomunate dal fatto di poter essere definite, tutte, problemi di convivenza. Questioni che pongono i singoli ed i gruppi di fronte alla necessità di un contatto ed un confronto con elementi di estraneità, più o meno destabilizzanti, talvolta di difficile gestione, perché per definizione portatori di una perturbazione all'interno di equilibri preesistenti. Come avremo modo di vedere nei prossimi appuntamenti, leggere le diverse situazioni dalle premesse che abbiamo iniziato a delineare, permette al modello di psicologia clinica nel quale ci riconosciamo (certamente non l'unico esistente!) di marcare una differenza netta con il modello medico. Una differenza forse non ancora molto chiara ai non addetti ai lavori, visto l'alone di ambiguità, indefinitezza, se non addirittura disconoscimento che circonda la rappresentazione dello psicologo e dello psicoterapeuta. 
Ci piacerebbe che lo spazio di questa rubrica possa divenire, nel tempo, un luogo di scambio e confronto, a partire dalla costruzione di un dialogo con i lettori. Per quanto ci riguarda, siamo intenzionati a fornire elementi che aiutino, chi interessato, ad iniziare a farsi un'idea della nostra disciplina e del nostro modello d'intervento; vorremmo anche, però, poter lavorare su temi ed interrogativi proposti da voi lettori.
A questo proposito, trovate, qui di seguito, un indirizzo e-mail al quale potete scrivere per  formularci le vostre domande. Torniamo, così, al punto di partenza: il titolo della rubrica, lasciandoci con l'immagine di una psicologia che si apre al territorio, facendosi conoscere e chiedendo al territorio di far emergere le proprie domande…


Autori: Silvia Lombardi, psicologa, psicoterapeuta, specialista in psicologia della salute

          Massimiliano Stinca, psicologo, psicoterapeuta, specialista in psicoterapia dei gruppi