giovedì 5 dicembre 2013

Psicologia del consiglio




http://d.repubblica.it/famiglia/2013/11/29/news/le_10_cose_da_non_dire_alla_maestra-1910252/

Il link riportato sopra rimanda ad un articolo comparso di recente su D, il settimanale di Repubblica, dal titolo -eloquente- "Le dieci cose da non dire alla maestra di tuo figlio". L'articolo ci offre la possibilità di condividere con voi qualche considerazione sul consiglio, o meglio, sul rapporto, a nostro parere a volte tanto stretto quanto problematico, tra la psicologia e il dare consigli.
L'articolo ci pone di fronte alla classica situazione dell'esperto psicologo che, chiamato in causa, declina il proprio decalogo, nel caso specifico al fine di promuovere una relazione di fiducia tra genitori ed insegnanti; decalogo peraltro curiosamente rivolto ad una sola delle due parti, i genitori.
L'idea di fondo, sembrerebbe essere quella di migliorare la relazione, sulla base di una logica pedagogico-educativa che tratta la comunicazione stessa nei termini di un oggetto-contenuto da trasmettere attraverso una sorta di addestramento.
Vi proponiamo di provare a leggere l'articolo, soffermandovi sulle impressioni che vi produce. Noi lo abbiamo fatto, e esaminando anche i commenti dei lettori, riportati alla fine, quello che pare emergere è, nel migliore dei casi, una sensazione di ovvietà.
Tale sensazione, più che configurarsi come qualcosa di specificatamente connesso a questo decalogo, riguarda i consigli in generale.  
Cos'è, in fondo, un buon consiglio, se non qualcosa di ragionevolmente ovvio; qualcosa che affonda nel buon senso comune? Saggio quanto vogliamo, ma certamente portatore di contenuti non ascrivibili ad un'area specialistica.
Un'altra caratteristica del consiglio, è quella di situarsi su di un livello prescrittivo-normativo, per definizione acontestuale, efficacemente rappresentato dalla presenza del dovrebbe: il piano del "come dovrebbero andare le cose", rigorosamente confinato nell'area della razionalità.
Che spazio occupano, entro questo scenario, le emozioni; emozioni che, evidentemente, non parlano la lingua del dover essere?
Torniamo all'articolo di D, e consideriamo, ad esempio, questa parte del testo:

Per evitare di incrinare il rapporto con la maestra, ecco le frasi che è meglio non dirle, suggerite da Suppa.
1. Sono in ansia quando lo lascio a scuola
Questo fa intendere che non hai fiducia in lei, che non le stai affidando il bambino fino in fondo. La maestra potrebbe interpretare una frase come questa in modo molto svilente. Se la madre si mostra eccessivamente ansiosa, il bambino potrebbe assorbire questo stato d'animo, sentirsi fuori luogo a scuola ed avere difficoltà a fidarsi a sua volta della maestra. E ciò potrebbe renderle il lavoro di molto difficoltoso.
2. Mio figlio non viene volentieri
È un'affermazione che sottintende una responsabilità dell'insegnante, perché sembra voler dire "è colpa tua". Questa frase potrebbe essere sostituita da "secondo lei mio figlio si trova bene, o ha qualche difficoltà?" per lasciare aperta la possibilità di confronto. 


Il decalogo proposto si fonda sull'idea -implicita- che una relazione di fiducia con l'altro possa prodursi affidandosi a delle strategie in grado di garantire una comunicazione adeguata, in quanto sostanzialmente innocua. Politically correct, verrebbe da dire! 
Ci appare infatti importante sottolineare come, nel contesto che stiamo esaminando, l'idea di adeguatezza/efficacia della comunicazione sembrerebbe avere più a che fare con l'obiettivo di non per-turbare l'altro, finendo magari per innescare situazioni conflittuali, che con la possibilità di realizzare un incontro, uno scambio.
Potremmo definire la logica che sostiene questo decalogo, una logica sostitutiva, organizzata attorno all'idea di sostituire l'emozione che si prova con qualcosa di più adeguato ed innocuo, ogni qual volta ci si confronti con qualche dato emozionale problematico
Che fine fa, allora, quel contenuto scomodo, ma indubbiamente più autentico, che si prova? Sembrerebbe semplicemente accantonato, forse dentro la fantasia che possa magicamente dissolversi, perchè fuori dalla vista, come polvere sotto al tappeto. Tale logica appare problematica principalmente perchè esclude dal campo proprio quel livello emozionale che, di fatto, organizza e costruisce le premesse su cui una relazione (e quindi anche la comunicazione) si fonda. 
C'è quindi tutto un materiale che resta inaccessibile e inutilizzabile, dentro una concettualizzazione della comunicazione nei termini di pratica confinata al piano intenzionale (razionale); qualcosa, in altri termini, da prendere alla lettera... come se, verrebbe da dire, non esistesse l'inconscio! Come se la fiducia potesse prodursi, all'interno di un rapporto, a prescindere dalle emozioni, dalle fantasie e dai pensieri che esso evoca nei suoi contraenti, semplicemente dicendo le "frasi giuste". 
Ragionare sul consiglio ci ha portati a riflettere su di una specifica rappresentazione della comunicazione (presente in ambito psicologico e non solo), a nostro avviso strettamente connessa alla pratica del dare consigli e ben rappresentata dall'articolo dal quale abbiamo preso spunto. 
Si potrebbe obiettare che il contesto di un giornale non è, evidentemente, il contesto di una psicoterapia, e che quindi il registro del consigliare si configuri come l'unico utilizzabile in questa situazione. 
Dal nostro punto di vista, tuttavia, sono i modelli che si possiedono a produrre visioni, posizionamenti, trasversali ai diversi contesti, e non il contrario. 
La psicologia che abbiamo in mente, è una disciplina che tenta di non rispondere alla domande che le vengono poste, ma, piuttosto, di aiutare le persone, i gruppi, i contesti che le si rivolgono a produrre creativamente le proprie risposte. 
E' una disciplina che cerca di produrre aperture, traiettorie, dando vita ad uno spazio -reale e simbolico al contempo- entro cui realizzare un'esplorazione, dentro un'esperienza d'incontro e scambio con l'altro. Esperienza perturbante per definizione, che la funzione psicologica si propone, da un lato di rendere possibile, dall'altro di sostenere e contenere mediante la messa a disposizione di uno spazio protetto, entro cui ciò che si racconta -e si vive- possa essere pensato ed elaborato.

lunedì 14 ottobre 2013

Quanto dura una psicoterapia?

Edward  Hopper
Rooms by the sea
( Stanze sul mare )
1952
 
Quanto dura una psicoterapia è senza dubbio uno degli interrogativi che ci vengono maggiormente rivolti: ci è parsa, quindi, una questione interessante da provare a trattare anche qui sul blog.
Iniziamo col dire che, dal nostro punto di vista, non è realisticamente possibile stabilire a priori la durata di un percorso psicoterapeutico; questo, tuttavia, non significa pensare alla psicoterapia nei termini di un'esperienza infinita. Anzi.
La conclusione del lavoro si configura come un orizzonte sin da subito riconosciuto e dichiarato; orizzonte che magari si situa per un certo periodo sullo sfondo, ma che resta comunque a segnalare la presenza e l'irrinunciabile necessità di un limite, necessario a scongiurare la fantasia di una relazione fine a se stessa, senza con-fini, appunto.
L'impossibilità di delimitare a priori un tempo è qualcosa che può spaventare -ci rendiamo conto- evocando il fantasma della dipendenza, ma l'accettazione di questa premessa, si pone come passaggio irrinunciabile per implicarsi ed avviare il percorso terapeutico. 
La relazione terapeutica è, prima di tutto, una relazione; una relazione caratterizzata da confini ed obiettivi specifici, ma comunque una relazione e, come tale, pone i suoi contraenti di fronte alla questione della dipendenza. Non è certamente un caso il fatto che la parola dipendenza tenda ad assumere nella nostra lingua una valenza negativa, tossica -in senso lato oltre che letterale- piuttosto che limitarsi a segnalare neutralmente lo stabilimento di un legame...come se potessero esistere relazioni non dipendenti; come se la costruzione di un rapporto con l'altro potesse realizzarsi a prescindere dall'emergere di vissuti di attacamento, desiderio della sua presenza e inevitabile paura di perderlo.
Di qui la necessità, molto evidente sul piano linguistico, di differenziare forme di dipendenza sana, dalle forme tossiche, tracciando un confine decisamente meno netto e nitido di quanto ci si sarebbe aspettati. E si avrebbe desiderato.
Ma torniamo alla relazione terapeutica. Una delle sue specificità, appare connessa proprio al fatto di porsi come relazione a termine, tesa al raggiungimento di obiettivi che, tuttavia, appare impossibile definire dettagliatamente ab initio. Proviamo a spiegarci più nel dettaglio: un lavoro psicoterapeutico si avvia sempre a partire da una domanda di cambiamento, connessa a fantasie di cura, trasformazione, recupero, integrazione o magari eliminazione di parti di sé, e l'elenco potrebbe continuare, ma il significato, il senso emozionale di queste parole è qualcosa di visceralmente connesso alla storia di ciascuno e all'unicità dell'incontro tra terapeuta e paziente. Qualcosa che si sottrae, per sua stessa natura, a qualsiasi tentativo di categorizzazione o generalizzazione. La domanda che il paziente porta in terapia, la sua richiesta, più o meno chiara ed esplicitata, rappresenta solo un punto di partenza, un pretesto da cui muovere per provare ad avvicinare e contattare un piano del desiderio, assai meno immediato, in quanto non intenzionale. Inconscio. Di qui, l'impossibilità e sopratutto l'inopportunità, entro la nostra cornice teorico metodologica di riferimento, di prendere alla lettera la domanda dell'altro e definire in partenza obiettivi ed intenti specifici del lavoro clinico che ci si appresta a fare insieme.
Il cambiamento, che all'inizio del post abbiamo associato all'immagine dell'orizzonte, è qualcosa che si situa tra la costruzione e la scoperta, perchè se da un lato si configura come l'esito di un lavoro fatto assieme al paziente, dall'altro implica l'attraversamento di un'esperienza di estraneità, assimilabile all'esplorazione di una terra sconosciuta. Esplorazione che non è possibile nè utile dirigere, focalizzare, quanto piuttosto sostenere, promuovere, accompagnare. 
Quanto dura, quindi, una psicoterapia? Quando e come si conclude?
Ogni relazione terapeutica costruisce la sua fine, evento che pone terapeuta e paziente davanti ad una delle esperienze più complesse e difficili del percorso e dell'esistenza umana: quella del separarsi
E' qui che il cerchio si chiude, restituendo il senso profondo, pieno, di un'esperienza di dipendenza tesa a realizzare e promuovere l'autonomia del paziente, oramai provvisto di quegli strumenti che gli consentono di proseguire l'esplorazione da solo.
La fine della terapia, infatti, non implica tanto l'esaurimento delle questioni da trattare, o magari la "soluzione del problema", quanto piuttosto l'emergere di un insieme di pensieri e vissuti che restituiscono una sensazione di conclusione, una consapevolezza non resocontabile, perchè non generalizzabile.
E' qui che anche noi ci fermiamo, riconoscendo un limite oltre il quale il racconto non può spingersi; un limite connesso ad un piano dell'esperienza conoscibile solo se vissuto ed attraversato.

sabato 14 settembre 2013

Man-tenersi

"Bello però, il verbo che va insieme alla promessa: mantenere. 
Man tenere, che è un tenere per mano."

 ( Erri De Luca)

lunedì 2 settembre 2013

Il labirinto come metafora esistenziale


LABIRINTO
Wislawa Szymborska (Bnin, Polonia, 1923 – Cracovia, Polonia, 2012)

- e ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po’ a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia
dove convergono
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.
Una via dopo l’altra,
ma senza ritorno.
Accessibile soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù a mo’ di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non lasciarsi sfuggire.
Quindi di qui o di qua
magri per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraverso infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo
da luogo a luogo,
fino a molti ancora aperti,
dove c’è buio ed incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c’è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell’infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia,
e d’improvviso un dirupo
un dirupo, ma un ponticello
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma c’è solo quello,
perché un altro non c’è.
Deve pur esserci un’ uscita,
è più che certo.
Ma tu non la cerchi,
è lei che ti cerca,
e lei fin dall’ inizio
che ti insegue
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua
fuga, fuga –

 Questa poesia della Szymborska ci pare un prezioso pretesto per provare ad evocare (anzichè spiegare, descrivere) quei vissuti di smarrimento, impotenza, che ciascuno di noi avverte, in alcuni momenti della propria vita, riconducibili alla sensazione di muoversi -più o meno alla cieca- alla ricerca di una via d'uscita che pare sottrarsi di continuo alla vista.
Pensiamo, più che a luoghi reali, a situazioni, comportamenti, eventi, che paiono ripresentarsi nostro malgrado, dando vita ad una ripetizione senza fine. Ecco che il labirinto si trasforma in un circolo vizioso. Forse, allora, l'uscita non esiste? E' solo un'illusione?
La poesia, che nel suo lungo e tortuoso procedere sembra riprodurre, anche sul piano strutturale, il "senso del labirinto", si chiude conducendoci davanti al nostro stesso autoinganno: non siamo noi a cercare l'uscita, semmai è lei a trovarci. Il nostro è piuttosto un affannoso ed instancabile tentativo di restare impigliati dentro la tela labirintica, eludendo la possibilità di fuoriuscire.
Perchè c'è qualcosa di rassicurante nella ripetizione; perchè la sofferenza può finire per divenire un rifugio drammaticamente sicuro; perchè mettere in crisi un assetto significa restare momentaneamente senza rete. Rischiare. Perchè accanto al desiderio di quel cambiamento che crediamo fermamente di volere e perseguire, abitano zone d'ombra -nostre stesse parti- che fatichiamo a riconoscere e ad interrogare.
La psicoterapia può divenire quello spazio entro cui pensare il proprio procedere entro il labirinto, osservandolo -e osservandosi- da una posizione inedita e per certi versi paradossale: interna ed esterna al contempo, così come accade quando il pensiero (che per definizione ha bisogno di produrre una distanza) si connette all'emozione (espressione di un coinvolgimento, di un' implicazione che ci fa stare dentro).
Attraverso la psicoterapia possiamo gradualmente ri-conoscerci, attraversare i nostri autoinganni, trasformando la "fuga" in un "andare verso".















martedì 5 marzo 2013

Psicologi -e psicologia- usa e getta


Assistiamo, negli ultimi tempi, al moltiplicarsi di iniziative e progetti finalizzati a offrire "consulenze psicologiche" all'interno di spazi variamente denominati (sportello amico, centro di ascolto, ecc.).
Il denominatore comune che attraversa tali iniziative è la gratuità del servizio erogato, il suo sistuarsi entro contesti "inediti" per la psicologia -ad esempio centri commerciali e farmacie- e, generalmente, l'assenza di condizioni e criteri organizzativi per accedere alla consulenza. 
L'intento sembrerebbe essere quello di "abbattere" tutte quelle barriere che, a vari livelli, si frappongono tra il bisogno dell'utenza, e l'incontro con lo psicologo, favorendo così una facilitazione dell'accesso alla consulenza, nonchè, di conseguenza, una promozione della psicologia stessa all'interno del territorio. 

Ma quanto, tuttavia, questa semplificazione finisce per evocare problematicamente una banalizzazione, se non addirittura uno snaturamento di tutte quelle pratiche d'intervento che, a vari livelli, rientrano nell'ambito psicologico clinico?  
Per dirla in altri termini, che tipo di rappresentazione della psicologia e della relazione terapeutica (a nostro avviso anche una consulenza psicologica, un unico colloquio, "costruiscono" una relazione terapeutica) tende ad essere evocata e veicolata da questo tipo di proposte? 

Pensiamo a questa relazione terapeutica, e alla proposta che veicola, nei termini di un esperimento a costo zero, non tanto e soltanto perchè gratuita in senso letterale, ma sopratutto alla luce del suo intento di far fuori tutti quegli elementi organizzativi:
 - prendere un appuntamento;
- delimitare espressamente una cornice temporale;
- avere a disposizione lo spazio fisico di uno studio;
- prendere sul serio la possibilità di parlare con uno psicologo, non così al volo, ma come momento delicato in cui si riconosce di avere veramente un problema o comunque una domanda.
Elementi, questi, che costruiscono quella dimensione di setting che, di fatto, qualifica l'intervento psicologico clinico, ponendo quei limiti/confini che permettono di differenziare questo tipo di relazione da altre forme d'aiuto. 

La dimensione del "costo zero" si associa, a nostro avviso, a quella del disimpegno, elemento, quest'ultimo, che ci ha spinto, non senza un pizzico di provocazione, ad evocare nel titolo una psicologia usa e getta. Disimpegno del cliente, che tenderà ad utilizzare questo spazio -poco cercato, non intenzionalmente raggiuto, ma più che altro incontrato quasi per caso- nei termini dell'ennesimo contenitore dove riversare il proprio sfogo, o magari trovare qualche soluzione, possibilmente rapida e indolore, e, più in generale, disimpegno della relazione stessa.

 Riteniamo assolutamente prezioso e vitale che la psicologia clinica si interroghi e metta in discussione i propri modelli d'intervento anche alla luce dei cambiamenti socio culturali in corso, non arroccandosi difensivamente su posizioni conservative, purchè questo non esiti in un tradimento della sua stessa identità.
Pensiamo che tali cambiamenti vadano riconosciuti e interrogati, piuttosto che scontatamente assecondati.
In questi tempi drammaticamente attraversati dalla precarietà -esistenziale e non "solo" lavorativa-  anche la psicologia clinica è chiamata a ripensare la propria proposta terapeutica. 
Proposta che, secondo noi, forse ancora più di prima, dovrebbe tentare di promuovere relazioni impegnate. Rapporti che tentino di costruire stabilità, premessa indispensabile per realizzare uno sviluppo.




mercoledì 6 febbraio 2013

Il paziente in psicoterapia


Negli ultimi anni si è parlato dell’utente che si rivolge allo psicologo definendolo un cliente in alternativa al paziente. Tale sottigliezza è nata per differenziare l’utente che si rivolge allo psicologo da quello che si rivolge al medico, o che comunque è allettato in ospedale. Dare del cliente all’utente che si rivolge allo psicologo è stato, ed è ancora adesso, il tentativo di promuovere in lui una motivazione che lo spinga a delegare meno allo psicologo, per ritrovare invece maggiormente risorse in se stesso. Nell’immaginario collettivo, erroneamente, il paziente viene visto come qualcuno che si affida completamente alle cure dell’altro, quasi che l’altro avesse un potere salvifico, quindi capace di sapere che cosa è giusto per noi.   
Poiché invece la psicologia vuole proporre uno spazio di riflessione in cui proprio l’utenza possa interrogarsi su che cosa possa essere giusto per se stessa, l’espressione paziente diviene inadeguata.

Tuttavia, sia il paziente del medico che quello dello psicologo hanno qualcosa in comune che forse sarebbe difficile attribuire ad un cliente. Il paziente è qualcuno che sta soffrendo, che è preoccupato, che è spaventato, solo per dire alcune delle esperienze emozionali che lo possono riguardare quando indossa questi abiti. Un cliente è preso da altre emozioni che sembra difficile accomunare a quelle del paziente. E’ chiaro, d'altro canto, che il pagare, quindi il comprare un servizio, renda qualsiasi paziente sempre un cliente.

Proviamo quindi a restare sulla dimensione del paziente, inteso come colui che è preso dentro un ventaglio di emozioni che in linea generale possiamo definire “sgradevoli”, evitando difensivamente di renderlo qualcosa d’altro, magari, appunto, un cliente più gestibile.
Il paziente è qualcuno -ce lo indica anche l’etimo della parola- che sta sopportando, che soffre. 
La "persona paziente" è sempre vista come qualcuno che tollera: "tu sì che ne hai di pazienza!" dice l’amico al genitore, ormai provato dai capricci del figlioletto. 
L’essere paziente, per ritornare al tema più vicino a noi, che è quello della psicoterapia, implica il dover sviluppare una forma di tolleranza nei confronti della frustrazione, emozione quest’ultima generata da un sentimento di impotenza.  

Alla frustrazione tutti noi reagiamo sempre con un colpo di reni, fisiologicamente, per potercene liberare prima possibile. Tuttavia la terapia psicologica vuole aiutare proprio a tollerare, gestire, le forme della frustrazione, nell’ipotesi che essa si manifesti ogni volta che ci si confronta con l'impossibilità di accedere al soddisfacimento immediato dei propri bisogni e desideri.
Pensiamo, giusto per fare alcuni esempi, a certe fantasie di guarigione/cambiamento immediato, coerenti con la logica del tutto e subito, piuttosto che all'esperienza stessa dell'apprendimento.
Imparare qualcosa di nuovo è frustrante per definizione, perchè ci confronta con qualcosa che non si conosce, che non si padroneggia.

Conoscere i propri meccanismi mentali, quegli automatismi dai quali derivano le nostre sofferenze entro i contesti che viviamo, è un’esperienza d’apprendimento, la quale diviene più frustrante nel momento in cui si tenta di costruire modalità di funzionamento inedite.
 Per questo diffidiamo di quei percorsi terapeutici lampo, in quanto, secondo noi, eludono la frustrazione quale esperienza connaturata a qualsiasi forma di apprendimento; esperienza che se da un lato ci fa soffrire, dall’altro ci dà anche la garanzia che stiamo realmente lavorando per cambiare.
E non può esserci cambiamento senza frustrazione.
   

venerdì 25 gennaio 2013

La psicoterapia come esperienza d'apprendimento


 
Molto spesso i pazienti che richiedono un intervento da parte dello psicologo immaginano e sperano -non a torto- che la loro problematica possa trovare una soluzione, come se si trattasse di guarire da una forma di malattia. Il male, il dolore, la sofferenza che si prova, troverebbero la loro fine una volta che si sia guariti.

Purtroppo la relazione terapeutica con lo psicologo non è in grado di produrre questo esito, poiché ciò di cui si occupa la psicologia non ha che fare con la cura ma con lo sviluppo, quindi insieme con lo psicologo più che guarire è possibile sviluppare nuove competenze.
Cosa può significare, questo,  ad esempio per un giovane padre, che indossa per la prima volta questi abiti? O per un ragazzo che non trova la spinta a fuoriuscire dalla propria famiglia d’origine? O, ancora, per una donna che, non trovando altra aspirazione che sacrificarsi per i suoi familiari, si scopre ad un certo punto svuotata?
Si capisce, con questi pochi esempi, che da queste situazioni non si può guarire; tantomeno si potrà immaginare quindi una cura! Contemporaneamente, è bene sottolinearlo, non esistono manuali grazie ai quali, con un po’ di pratica, ci si possa addestrare come se si stesse imparando a portare l’automobile. E volendo, anche nel caso dell’automobile (apprendimento che si fa una volta per tutte), averla guidata nel piccolo paese per vent’anni non rende certo competenti al traffico di una grande città, a cui ci si affaccia per la prima volta.

La relazione terapeutica come esperienza d’apprendimento è uno spazio all’interno del quale si tentano esperimenti di nuove forme di guida (per restare nella metafora della guida dell’automobile) alternative rispetto allo stile al quale si era abituati sino a quel momento. Nessuno imparerebbe a guidare nel traffico di Roma, con le sue regole implicite, grazie soltanto all’ausilio del libro di scuola guida o alla spiegazione offerta da qualcuno. Per cui imparare a guidare di nuovo, significa apprendere nuove competenze rispetto al contesto urbano e di traffico col quale si è confrontati adesso.  Vuole essere questa una metafora che aiuti maggiormente a visualizzare cosa, tutto ciò,  possa significare per la vita di ciascuno di noi. 

Domandarsi con quale "nuova" situazione contestuale ci stiamo confrontando, quale sia, quindi, il cambiamento in corso, quali modalità abbiamo messo in campo fino a questo momento, diventano i primi passi utili a comprendere il nuovo apprendimento che ci è richiesto. Apprendimento formativo grazie al quale continuiamo a svilupparci e attraverso cui impariamo a costruire nuovi strumenti per stare al mondo.
Purtroppo apprendere è faticoso e richiede tempo poiché ci obbliga a rinunciare in parte a quella comodità che ci eravamo costruiti fino a quel momento; tuttavia è l’unica strada a nostra disposizione per fuoriuscire dalla sofferenza mortificante generata dal “vecchio” che tenta di resistere all’estraneità che non comprendiamo ancora.