sabato 23 ottobre 2010

A proposito del benessere....

Per una rilettura critica del rapporto tra psicoterapia e benessere
a cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca


Partiamo, ancora una volta, dalla parola, nell'ipotesi che questa possa funzionare nei termini di uno stimolo capace di produrre, evocare una serie di associazioni mentali, vissuti, immagini, pensieri, riconducibili alle specificità del proprio mondo interno nonchè a "dimensioni culturali", legate al contesto d'appartenenza.

Partire dalla parola, può significare, ad esempio, chiederci cosa ci viene in mente, ogni volta che pensiamo alla parola "benessere"; eccoci dunque condotti entro un'area organizzata attorno all'idea dello "stare-sentirsi bene"... area che sembrerebbe richiamare contesti quali il "centro benessere", o magari il "centro fitness", non meno che il nome di alcune testate femminili incentrate, non a caso, su argomenti di "salute, bellezza e benessere".
"Star bene" che si organizza attorno ad azioni di presa in carico del proprio corpo e di un non meglio specificato "equilibrio" tra mente e corpo, attraverso una serie di pratiche, di attività tendenzialmente finalizzate alla scarica di una tensione, piuttosto che alla realizzazione-incremento di una condizione di rilassamento. "Star bene" che, tra le altre cose, sembrerebbe implicitamente evocare l'idea di un modello comportamentale virtuoso, capace di restituire o magari produrre ex-novo una condizione di benessere , appunto, decisamente standardizzata e definibile a priori.

Proviamo a fare un passo avanti, introducendo un'ulteriore questione: può, e in che termini e con che tipo di conseguenze, la psicoterapia mettersi in rapporto con la questione del benessere?
Ci appare, questo, un punto importante da sottolineare, nonostante tenda ad essere bypassato.
Chi scrive ritiene che mettere in rapporto l'area psicoterapica con l'area del benessere, definendo quest'ultimo l'obiettivo dell'intervento psicoterapico, tenda ad istituire -su di un piano emozionale (il più delle volte implicito e non consapevole) una sovrapposizione tra intervento psicoterapico e quell'"area-benessere" precedentemente delineata. Ciò significa, in altri termini, proporre e produrre una rappresentazione della psicoterapia quale prassi principalmente orientata a promuovere lo "star bene" dell'altro... non meno di quanto non faccia un centro benessere, o una palestra.

Noi, in accordo con una serie di premesse teorico metodologiche proprie di una specifica visione della Psicologia Clinica, riteniamo, viceversa, che il benessere si configuri come un'auspicabile conseguenza di un percorso psicoterapeutico, ma non certo come uno dei suoi obiettivi. 
A costo di apparire provocatori, ci pare infatti rilevante sottolineare come il lavoro psicoterapeutico-almeno così come noi lo concettualizziamo- si proponga di rendere possibile lo sviluppo di pensieri im-pensati, operazione, quest'ultima, che non ha nulla di rilassante, o rassicurante, risultando, piuttosto anche faticosa e dolorosa. Il cambiamento si pone come un "cambio di assetto" che passa necessariamente attraverso un'operazione di destrutturazione-ricomposizione della propria visione, evidentemente non prevedibile-definibile a priori. 
Lo sviluppo di gradi maggiori di autonomia, di una competenza ad orientarsi emozionalmente entro i propri rapporti con i contesti di vita, di una conoscenza di sè più accogliente e disincantata rappresentano, a nostro avviso gli obiettivi metodologici di un lavoro psicoterapeutico: obiettivi che mirano a realizzare possibilità di rapporto con se stessi e con la realtà più adattive, ma che ci appare improprio e problematico schiacciare nell'area del benessere.

In conclusione, vale forse la pena sottolineare come le riflessioni critiche qui presentate non intendano liquidare, nè tantomeno negare l'importanza di quella che abbiamo definito "l'area del benessere", nonchè degli interventi non psicologici ad essa connessi, bensì -ripetiamolo ancora una volta- esplicitare la necessità di una non scontata sovrapposizione tra tale area e intervento psicoterapeutico.





giovedì 14 ottobre 2010


 
Riflessioni attorno al rapporto tra psicoterapia e salute
-Per una definizione della salute come possibilità integrativa-
  
 A cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca

Obiettivo di questo scritto è provare ad esplorare il rapporto tra psicoterapia e salute, evidenziando come questo possa declinarsi lungo linee diverse, riconducibili a differenti rappresentazioni dell'idea di "salute", nonché della funzione psicologico-clinica. Ci appare, questa, una questione importante da trattare, al fine di provare a delineare le specificità metodologiche che organizzano il nostro lavoro e, conseguentemente, la nostra proposta psicologico-psicoterapeutica.
Proviamo, dunque, a partire da alcune domande; domande che, come già accennato, non esitano in una risposta univoca e, come tale, scontatamente liquidabile. In che termini l’ambito psicologico-psicoterapeutico ha a che fare con la “salute”? E, ancora, cosa intendiamo per “salute”?
Procederemo nella nostra riflessione assumendo un vertice clinico, la cui premessa teorico-metodologica di base potrebbe essere così formulata: non esistono eventi emozionalmente neutri, dunque, i processi di conoscenza-relazione con la realtà sono sempre processi di tipo affettivo-simbolico.  

 Avvicinare la questione della salute porta in figura anche la questione della malattia, che sembrerebbe porsi quale inevitabile rovescio della medaglia, evocando un confronto tra due parti.
Mario Bertini, nel suo articolo “Psicologia della Salute e Psicoterapia,”[1]delinea due modalità di concettualizzare –e simbolizzare emozionalmente- la relazione tra queste due “aree”; aree che possono essere pensate nei termini di due diverse posizioni: una, rappresentabile sottoforma di un continuum che dal polo della normalità, scivola gradualmente verso il polo della patologia; l’altra, organizzata bidimensionalmente, con le due dimensioni della salute e della malattia “relativamente indipendenti, ma di fatto, intrecciate ed interdipendenti” [2](M. Bertini, 2001, 2008). Se la prima, dunque, suggerisce una modalità di rapporto fondata su di una logica esclusivo-disgiuntiva (presenza dell’una, assenza dell’altra), la seconda sembrerebbe aprire alla creazione e al riconoscimento di uno spazio più ampio, capace di com-prendere, accogliere, tanto la dimensione della salute, che quella della malattia.
Queste due posizioni, esitano in due diverse rappresentazioni della salute:

1) la salute come assenza di malattia
La logica esclusivo–disgiuntiva propria di tale rappresentazione- appare organizzata attorno a fantasie di eliminazione delle “parti malate”, attraverso un rafforzamento delle “parti sane”. Sulla base di tali premesse, la promozione della salute finisce per dispiegarsi lungo linee di funzionamento isomorfe a quello stesso modello medico (la malattia come assenza di salute) che, sul piano intenzionale, tale posizione dichiara di voler attraversare. La logica escludente, infatti, col suo non lasciar spazio alla possibilità di una co-presenza, finisce per schiacciare rigidamente il rapporto tra salute e malattia sul terreno dello scontro, del conflitto, anche quando viene utilizzata per lavorare sulle risorse delle persone, mettendo apparentemente sullo sfondo la questione della malattia. L’articolo di Colombo e Goldwurm, “Psicologia Positiva e Psicoterapia” (2007) si situa entro la posizione che si sta provando a delineare, offrendo ulteriori spunti di riflessione (il corsivo è nostro):

  L’emergere della psicologia positiva è avvenuto in contrapposizione al modello medico della malattia mentale e alla forte enfasi sullo sviluppo dei problemi e della loro risoluzione, caratterizzandosi per l’attenzione alle caratteristiche personali che permettono di vivere bene (…) la psicologia positiva oggi vuole superare l’antitesi tra positivo e negativo, tipica della cultura occidentale, e proporsi come una prospettiva da cui studiare l’essere umano in tutte le sue sfaccettature (…) ecco quindi che in quest’ottica è possibile applicare la prospettiva della psicologia positiva nella disabilità e nella psicopatologia, negli interventi di prevenzione e di terapia…”

 Gli autori individuano dunque nel “superamento dell’antitesi tra positivo e negativo” l’obiettivo, per così dire programmatico, della psicologia positiva, ma in che termini stanno organizzando il rapporto tra salute e malattia? Il fatto che parlino di una possibilità “applicativa” di tale prospettiva nell’ambito della psicopatologia riporta in figura l’idea di una scissione tra l’area della salute e quella della malattia, pensate nei termini di territorialità che si auto-escludono. Ma, allora, come viene concettualizzata l’idea del superamento dell’antitesi? Colombo e Goldwurn sembrerebbero dirci che la psicologia positiva, con il suo focus su risorse e potenzialità dell’individuo, può occuparsi anche di malattia, ma che quest’ultima, come vedremo, non può che essere pensata quale parte –separata- da ridurre o eliminare. Citano, a tal proposito, come “un buon esempio per la psicologia positiva”, il programma di Fordyce (1977, 1983) per incrementare la “felicità”, i cui obiettivi vengono così definiti: “ eliminare sentimenti negativi e problemi, smettere di preoccuparsi, sviluppare pensieri ottimistici e positivi, sviluppare una personalità socievole, essere orientati sul presente, essere più attivi, migliorare i rapporti intimi”. Potremmo, dunque, parlare di un’antitesi effettivamente “superata”, ma non attraversata, intendendo l’attraversamento un processo che funziona lungo linee a carattere espansivo-inclusive. La premessa teorica, trasversale ai diversi contributi presentati nell’articolo, appare organizzata attorno all’idea di risorse concettualizzate come punti di forza dell’individuo che possono contrastare lo sviluppo della patologia (Seligman, 2002), attraverso l’organizzazione di un controllo. E’ evidente la centralità rivestita dal modello cognitivo-comportamentale entro tale prospettiva: non a caso, gli autori, appartenenti a questa area, analizzano le connessioni esistenti tra psicologia positiva e psicoterapia, facendo riferimento al modello psicoterapeutico cognitivo-comportamentale. L’ancoraggio a tale modello organizza una rappresentazione dell’intervento di promozione della salute –non meno che di psicoterapia- quale “programma”, strutturato, direttivo, orientato alla soluzione dei problemi, ed educativo.  Questo ci riporta alla questione del rapporto tra la dimensione teorica dei propri modelli d’intervento, e la modalità di relazione –dunque di simbolizzazione- degli stessi. L’ipotesi che si propone, è che possa essere rilevante riconoscere e differenziare un piano intenzionale –riconducibile ad una sorta di dichiarazione d’intenti, da un livello emozionale. Riconoscere questo doppio livello, permette, in questo caso, di cogliere una rappresentazione del superamento dell’antitesi tra positivo e negativo che non propone un attraversamento di tale dicotomia, bensì immagina di affiancare l’area della salute a quella della malattia, rafforzando la prima, al fine di ridurre-controllare la seconda. Ne consegue una necessità di tipo normativo, che, attraverso l’individuazione di dimensioni valoriali, si propone di promuovere entro i contesti d’intervento –ancora una volta, anche psicoterapeutici- lo sviluppo di “dimensioni positive di salute”. 

In conclusione di questa prima parte, appare rilevante accennare alla questione del cambiamento: gli elementi che sono andati via via emergendo, entro lo scenario del “modello salute” come assenza di malattia, organizzano una rappresentazione del cambiamento quale processo trasformativo, teso al raggiungimento di uno stadio predefinito, muovendo da una simbolizzazione della salute nei termini di stato ideale acontestuale, perché dato a priori, verso cui l’altro (sia esso un singolo individuo, un gruppo, un contesto organizzativo…) è guidato-condotto.
Il cambiamento, dunque, come processualità che si tenta di prevedere/controllare, a partire da una rappresentazione dell’individuo come soggetto “attivo”, ma certamente non “autonomo”[3]. Basterà qui ricordare come la dimensione dell’attività, pur ponendosi quale superamento della passività dell’individuo teorizzata dal comportamentismo, rappresenti il polo positivo del medesimo continuum,  organizzato attorno all’idea di un rapporto individuo-contesto che si dispiega lungo le linee dell’apprendimento e dell’elaborazione dell’informazione. La dimensione dell’autonomia, invece, attiene la rappresentazione della salute che qui di seguito verrà delineata.

2) La salute come possibilità integrativa.
Passiamo  ora ad analizzare il modello di salute che chi scrive sta tentando di delineare; modello che orienta la nostra prassi d'intervento implicando, tra le altre cose, una specifica concettualizzazione del cambiamento.
La logica che sostiene ed organizza questa rappresentazione della salute si fonda su di una modalità di funzionamento che definiamo a carattere espansivo-inclusivo, esito dell’attraversamento di modalità di funzionamento a carattere “esclusivo-disgiuntivo”. In tal senso, si potrebbe concettualizzare l’obiettivo metodologico dei processi di salute proprio nei termini di un incremento della modalità di funzionamento espansivo-inclusiva. Incrementare tale modalità significa organizzare spazi –interni e reali al contempo- entro cui accettare e riconoscere anche le zone d’ombra (la “malattia”), organizzando le premesse per lo sviluppo di modalità di rapporto tra le parti di carattere integrativo. 
Si propone l’ipotesi che lo sviluppo di processi di salute così concettualizzati, non passi attraverso l’applicazione di tecniche, bensì si ponga quale esito di un processo d’integrazione che renda possibile lo sviluppo di un’ottica della salute, attraverso cui accompagnare e facilitare processualità co-costruite, sospendendo le proprie quote di potere-controllo, grazie all’emergere di una fiducia nel processo.
La rappresentazione della salute – o della malattia- quale “dato di fatto”, esita in una reificazione della stessa, trattata alla stregua di dato reale-oggettivo, rispetto al quale organizzare un controllo della sua “presenza-assenza”. Ecco che le stesse “emozioni negative”, come emerge nel programma di Fordyce, citato in precedenza, divengono quelle parti malate rispetto alle quali l’unico tipo d’intervento possibile, procede lungo le linee della riduzione-eliminazione. Ecco, inoltre, come il livello sul quale intervenire, al fine di produrre un cambiamento, non può che essere quello dei comportamenti.  
Viceversa, l’assunzione di un vertice clinico, aprendo alla possibilità di uno spostamento sul piano del vissuto, permette di sentire e pensare salute e malattia quali dimensioni emozionali rispetto alle quali organizzare un riconoscimento ed un’accettazione. Se tale possibilità può apparire, forse, più immediatamente “accettabile” sul fronte delle emozioni cosiddette “positive”, potrebbe invece non risultare così scontata sul versante delle emozioni “negative”, proprio in ragione di una loro simbolizzazione affettiva nei termini di “parti malate”.
Porre al centro del lavoro con e sulle emozioni la dimensione dell’accettazione, permette di riconsiderare il rapporto emozioni-pensiero da un vertice d’osservazione ulteriore, organizzato attorno al riconoscimento e alla valorizzazione della dimensione del sentire. Sentire che, nel suo porsi nei termini di dimensione ponte tra l’emozionalità agita e quella consapevolizzazione utile allo sviluppo di un pensiero sull’emozione, apre ad una possibilità espressiva, situabile su di un livello esperienziale. Da un punto di vista metodologico, le competenze che si sta tentando di delineare si configurano come  l’esito di un processo d’integrazione tra dimensioni esperienziali, emozionalità e pensiero.
Ecco, quindi, che lo spazio della relazione con l’altro resta sì uno spazio entro cui promuovere lo sviluppo di un pensiero, ma diviene anche uno spazio entro cui accogliere, riconoscere ed utilizzare dimensioni espressivo-esperienziali non necessariamente situabili sul piano della parola.  
Accettazione e cambiamento potrebbero apparire, almeno entro la nostra cultura, dimensioni quasi antitetiche, in ragione di una rappresentazione dell’accettazione nei termini di resa, sospesa tra la passività e lo stoicismo. Il modello d’accettazione qui brevemente delineato, rimanda, invece, ad un arrendersi che si pone quale esito dell’attraversamento di una fantasia di controllo, e quale ampliamento delle proprie possibilità di scelta, a partire dal riconoscimento dei propri limiti. L’idea di cambiamento che ne deriva, sembrerebbe “modulare” la forte enfasi sull’individuo, sul “potere” dei processi di pensiero, sul primato degli obiettivi rispetto alle processualità che li rendono possibili, organizzando un decentramento che, proprio grazie all’accettazione di un limite, apre allo sviluppo di possibilità di salute più autentiche.


[1] Bertini, M. (2007), “Psicologia della salute e psicoterapia”. In “Interazioni”, 2/2007.


[2] Bertini, M. (2001, 2007)

[3] cfr. Guerra, G. (2004), “Che cos’è un fatto clinico”, in Psychologie clinique, Nouvelle serie n.17.

[4] “Si tratta, dunque, non di cambiare la teoria psicologica al variare del contesto, bensì di disporre di un orientamento metodologico variamente compatibile con le caratteristiche del mandato e con le possibilità offerte dal contesto in cui si interviene (…) competenza che possiamo definire come capacità di promuovere un pensiero sull’accadente che consente di dare senso alla relazione (…) se si va oltre il sintomo, in ambito psicologico, non si incontra infatti la patogenesi e l’eziologia della forma morbosa; si incontra, invece, quale prima e rilevante fenomenologia, la domanda che è stata rivolta allo psicologo; una domanda che prefigura effettivamente quello che si potrà fare insieme.” (Montesarchio, G., Venuleo, C., 2005)

martedì 12 ottobre 2010

Appunti per una lettura della questione giovanile

A cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca

Premessa

Obiettivo di questo lavoro è provare a individuare e presentare una piccola collezione di indicazioni, attraverso cui iniziare a delineare una mappa che offra una possibilità di orientamento entro la questione-contesto che ci proponiamo di avvicinare ed esplorare: i “giovani”. Definire la “questione giovanile” una questione-contesto ci permette di portare in figura una delle premesse metodologiche che organizza il nostro lavoro e, di conseguenza, la nostra concettualizzazione della funzione psicologico-clinica: la necessità di inscrivere la questione giovanile entro specifiche coordinate storico-constestuali, a partire dall’ipotesi che non abbia senso parlare dei giovani in generale, perché -verrebbe da dire- non esistono giovani in generale. L’altra premessa metodologica che ci pare rilevante segnalare, concerne l’esplicitazione di quale possa essere il contributo della funzione psicologico-clinica rispetto al tema in questione. Un contributo che si propone di comporre ed offrire una visione sulla questione giovanile che, piuttosto che tentare di “chiudere” entro una logica definitoria e reificante una realtà, intende interrogarla, provando a individuare linee di sviluppo possibili.

Materiali utilizzati 
Ma come riuscire a reperire informazioni, indizi, utili a rendere possibile un primo contatto con questa realtà, non disponendo di “dati sperimentali”, recuperati mediante un progetto di ricerca? Pur consapevoli del limite rappresentato da questa assenza, abbiamo deciso di procedere lungo una via indiretta, non focalizzandoci al momento sulla viva voce dei giovani, bensì sulla rappresentazione della questione giovanile proposta dagli articoli, i blog e le ricerche presenti in rete . Il nostro intento, evidentemente, non è stato quello di arrivare ad avere una visione sistematica ed esaustiva della letteratura sul tema, ma di poterci fare un’idea delle modalità simbolico-affettive che attualmente organizzano la rappresentazione della questione giovanile sulla rete, nell’ipotesi che questo canale -in ragione della sua tempestività ed eterogeneità- registri e rifletta con una buona approssimazione la rappresentazione dei giovani presente all’interno della cultura locale italiana. Esplorare ed analizzare tale materiale testuale ci ha offerto la possibilità di realizzare una sorta di conoscenza preliminare, a partire dalla quale delineare delle ipotesi di carattere generale sulla rappresentazione della questione giovanile entro la cultura locale italiana; ipotesi che potrebbero successivamente orientare una ricerca finalizzata, magari, a produrre conoscenza su di una specifica cultura giovanile . Tale passaggio renderebbe possibile una verifica e una contestualizzazione degli elementi conoscitivi che ci apprestiamo a presentare, dopo qualche breve considerazione d’ordine metodologico.

La metodologia: dalla parola-simbolo, alla parola-segno 
Il materiale testuale è stato analizzato manualmente, ancorandoci, tuttavia, a quelle stesse premesse metodologiche che avrebbero orientato un’analisi testuale realizzata utilizzando specifici software. Vista la recente diffusione di non meglio specificate “analisi testuali” in ambito psicologico, ci sembra importante chiarire come, chi scrive, si stia riferendo all’Analisi Emozionale del Testo, una metodologia elaborata da Carli & Paniccia (2002). Pur non essendo questa la sede per addentrarci in una trattazione dettagliata dell’ AET , qualche accenno alla logica che regge tale metodologia di analisi ci appare indispensabile per raggiungere il cuore di questo lavoro. L’AET si fonda su di un processo di destrutturazione del testo, finalizzato a liberare l’emozionalità delle parole che lo compongono, realizzando uno scavalcamento del senso intenzionale del discorso. La comprensione del senso intenzionale di un testo, in altri termini, ci permette di cogliere quanto questo ci stia cercando di dire, mentre la sua destrutturazione apre alla possibilità di sentire l’emozionalità che lo attraversa e compone, realizzando uno spostamento del focus sulla componente espressiva del discorso. Ecco quindi che la messa in crisi del senso intenzionale rende possibile l’emersione di un senso emozionale. Ma perché andare a ricercare questo senso emozionale? Qual è la connessione tra materiali testuali e culture locali? L’ipotesi proposta da Carli & Paniccia (2002) è che il senso emozionale di un insieme di testi-discorsi prodotti da un gruppo di persone, unite dall’appartenenza ad un medesimo contesto e chiamate ad esprimersi su di uno stesso tema, rifletta il processo di simbolizzazione affettiva di quel contesto su quel tema . Tale genere di “conoscenza” “informa” ed orienta forme di azione; ciò equivale a dire che la dimensione simbolico-affettiva, non si costituisce come un banale: “che cosa i giovani provano”, piuttosto essa declina le modalità di partecipazione alla realtà. Nel nostro caso, dunque, risalire al senso emozionale del materiale testuale raccolto ci permette di cogliere –seppur in una chiave ancora impressionistica - la rappresentazione emozionale della questione giovanile presente sulla rete. La nostra analisi manuale si è quindi proposta di andare ad estrarre un concatenamento di parole -che definiamo “concatenamento tematico-affettivo”- identificate sulla base di due criteri: la densità emozionale, riconducibile alla polisemia della parola -vale a dire, alla sua capacità di produrre un senso emozionale “pieno”, capace di marcare il significato del discorso- e, in secondo luogo, la sua alta frequenza all’interno dei testi presi in esame. I testi sono stati quindi letti ed analizzati rifacendoci alla disposizione emozionale dell’“attenzione liberamente fluttuante”, modalità che, più classicamente, caratterizza il posizionamento psicologico all’interno di una situazione terapeutica, a partire dall’ipotesi che il vertice clinico attraversi trasversalmente i diversi contesti d’intervento, non limitandosi, quindi, al solo contesto psicoterapeutico. Da un punto di vista emozionale, la destrutturazione del testo potrebbe essere paragonata ad un’esperienza di smarrimento, in ragione della perdita di quelle coordinate logico-sintattiche che solitamente garantiscono un orientamento all’interno del contesto-testuale. Ecco, allora, che si procede alla ricerca di parole-indizi, capaci di produrre –attraverso inediti concatenamenti- percorsi esplorativi ulteriori, che aprano all’individuazione di linee di sviluppo possibili. La logica definitoria, propria del testo-discorso, lascia quindi spazio ad un concatenamento di parole che inizia ad “indicare”, creando le premesse per la messa in moto di un processo.


Analisi del concatenamento tematico-affettivo

FUTURO PRECARIETA’ FLESSIBILITA’ DESERTO

La domanda da cui siamo partiti, per addentrarci nella nostra esplorazione dei testi, potrebbe essere così formulata: quali sono le questioni che, attualmente, vengono evocate quando si parla di “giovani” nel nostro Paese? La risposta suona apparentemente deludente nella sua scontatezza, ponendoci, infatti, di fronte a due parole – futuro e precarietà - che sembrerebbero condurci all’interno di un vicolo cieco, se colte esclusivamente sul piano del loro senso intenzionale. Si potrebbe infatti affermare che sia ovvio che parlare di giovani oggi porti in figura la questione della precarietà (lavorativa, affettiva, esistenziale…?); questione che, altrettanto scontatamente, sembrerebbe attaccare ed intaccare l’idea stessa del futuro, restituendo un vissuto di impotenza. Impossibilità. Ci siamo chiesti come aprire una breccia, trovare una linea di fuga che apra alla possibilità di fuoriuscire da una lettura che ci appare reificata nella sua fattualità, muovendo dall’ipotesi che il contributo che la funzione psicologico-clinica possa offrire concerna, in prima istanza, la possibilità di interrogare e mettere in crisi i vissuti di impotenza organizzati attorno alla fantasia che “non possa essere che così, perché questa è la realtà delle cose…”. Facciamo quindi un passo indietro e torniamo a“futuro”, vale a dire, “ciò che sta per essere”, provando ad avvicinare e liberare il nucleo emozionale della parola, secondo alcuni studiosi, riconducibile ad una antica radice (“bhewe”) che reca in sé il senso del “creare”, “produrre”, “germogliare”. , insinuando almeno un dubbio circa la scontatezza del futuro, quale dimensione garantita a priori. Il nucleo emozionale della parola, in altri termini, sembra portare in figura un paradosso che potrebbe essere così formulato: il futuro è qualcosa che sta per essere, ma che chiede di essere prodotto. Interessante notare come nei testi analizzati compaiano frequentemente frasi come “i giovani oggi non hanno un futuro”, o “ai giovani è stato tolto, negato un futuro”, espressioni che, a nostro avviso, organizzano una rappresentazione del futuro nei termini di un “bene”, precedentemente dato a priori, di cui all’improvviso ci si ritrova espropriati… come se venisse meno il terreno sotto i piedi. Come ci si organizza, rispetto a tale perdita? La seconda parola del nostro concatenamento ci aiuta ad organizzare una risposta. “Precarietà”, deriva dall’aggettivo latino “precarius”, “ottenuto per preghiera”, a sua volta, da “prex”, “preghiera”. Siamo confrontati con l’idea di una concessione, con l’elargizione di un bene non fondata su di un diritto, bensì sulla clemenza, imprevedibile per definizione, di un’autorità. Chi prega chiede, ma sa di poter unicamente sperare, entro un rapporto caratterizzato da una marcata asimmetria e da una pressoché totale dipendenza dall’altro. In tal senso, la precarietà sembrerebbe evocare una dimensione di attesa, sospesa su quel sottile confine che separa la speranza, dalla disperazione, la salvezza dalla rovina. Il “bene” che si spera di riuscire ad ottenere, o a mantenere a seguito della concessione, sembrerebbe essere -prima ancora che il lavoro- il futuro stesso, rispetto al quale ci si organizza in una posizione di attesa e di “preghiera”, appunto. Le prime due parole del concatenamento ci permettono di iniziare a delineare una possibile definizione di come possa essere simbolizzato affettivamente, entro la cultura locale italiana, il “futuro precario”, portando in figura l’immagine di un bene repentinamente sottratto, e il conseguente organizzarsi di una “preghiera”, sentita come l’unica strada possibile per il recupero del bene perduto. L’aspetto che ci sembra importante sottolineare con forza, è il vissuto di profonda impotenza che l’incontro tra queste due parole organizza: si prega, in altri termini, perché sembrerebbe non esserci altra possibilità di rapporto con il reale; si prega perché la rappresentazione del futuro appare completamente schiacciata sul fronte del “bene concesso-sottratto”. La parola “flessibilità”, dal latino “flecto”, “piegare”, “volgere”, “trasformarsi”, suggerisce l’immagine di una piega, concettualizzabile nei termini di “evento che irrompe”, spezzando la linearità di una retta. Vengono alla mente le immagini di un’onda, piuttosto che di una curva stradale, a suggerire il prodursi di un cambiamento nel contesto che, esponendo al rischio di un perdita di equilibrio, sembrerebbe segnalare la necessità di organizzare un nuovo posizionamento, attraverso cui istituire una modalità di rapporto altra con il contesto stesso. L’ipotesi che stiamo proponendo è che i ben noti cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro negli ultimi anni in Italia, abbiano prodotto, tra le altre cose, la messa in crisi di una rappresentazione del futuro, quale dimensione data a priori -dunque garantita- concettualizzabile nei termini di una strada sostanzialmente lineare. Sottolineiamo come tale rappresentazione si organizzi attorno a vissuti di sicurezza, stabilità , riconducibili alla presenza di una dimensione di base che riesce a assicurare e rassicurare rispetto all’esistenza di qualcosa… il lavoro… il futuro? Non si sta quindi asserendo che questa rappresentazione organizzi la fantasia che trovare lavoro, costruire il proprio futuro, sia qualcosa di facile, ma che il lavoro e il futuro siano due “beni” sicuramente presenti nella realtà. La rappresentazione attuale del futuro, viceversa, sembrerebbe non potersi più organizzare su questa sicurezza di base: ecco quindi che la perdita di garanzie rispetto alla presenza del “lavoro” contamina l’idea stessa del “futuro”, organizzando la fantasia della perdita-espropriazione del futuro stesso. Provando a connettere le indicazioni suggerite da “flessibilità” con le due parole precedenti, però, abbiamo la possibilità di individuare una “terza via” che metta in crisi la rigidità –verrebbe da dire lineare- proposta da “precarietà” e “futuro”. L’immagine della curva suggerisce, infatti, la possibilità di una strada (il futuro) che, deviando inaspettatamente, esponga al rischio di perdere il terreno sotto i piedi, non perché la strada venga meno tout court, bensì in ragione della perdita della prevedibilità, dunque del controllo, sulla strada stessa. Ecco quindi che il “fermarsi ad attendere”, evocato da “precarietà”, assume più vividamente i contorni di un posizionamento difensivo rispetto alla difficoltà di riuscire a mantenersi in equilibrio –prima ancora che ad orientarsi- entro una strada-futuro che curvando all’improvviso si trasforma, divenendo un territorio sconosciuto. “Deserto”, altra parola del concatenamento, deriva dal participio passato del verbo “desero”, “abbandonare”, composto di “de”, particella che indica un senso contrario, e “sero”, “connettere”, “annodare”. Il nucleo emozionale della parola evoca l’immagine di uno spazio vuoto, perché disabitato, privo di connessioni, dunque, abbandonato. E’ forse questo il territorio che ci si apre davanti, nel corso della curva? E ancora, cosa potrebbe significare transitare da una rappresentazione del futuro nei termini di “territorio abitato” –e abitabile- alla desolazione di un futuro simbolizzato nei termini di uno spazio desertico? Va delineandosi un vissuto di solitudine ed isolamento che sembrerebbe amplificare ulteriormente il senso d’impotenza: cosa fare, sembrerebbero dirci queste parole, se non attendere e sperare? L’ipotesi che intendiamo proporre è che ci si potrebbe, ad esempio, iniziare a domandare di cosa si abbia bisogno per imparare ad orientarsi all’interno del deserto, muovendo dal riconoscimento dell’inadeguatezza degli strumenti di cui si dispone e dalla conseguente necessità di una loro ridefinizione in funzione del cambiamento contestuale; cambiamento che, però, chiede di essere esplicitato e accettato come premessa –senza dubbio problematica- da cui muovere. Ciò che riteniamo di poter cogliere da questo concatenamento è, in altri termini, la possibilità di intercettare e promuovere una domanda di orientamento, a partire da una ridefinizione dell’esperienza stessa dell’orientamento. Verrebbe da dire, infatti, che orientarsi nel deserto sia cosa ben diversa che orientarsi in uno spazio abitato… Come già accennato, le due dimensioni affettive che attraversano e organizzano il nucleo emozionale di “deserto” sono l’abbandono e il vuoto: proviamo ad esplorarle più da vicino, territorializzandole all’interno del nostro concatenamento. La dimensione abbandonica rimanda, a nostro avviso, al vissuto del giovane che si trova letteralmente scaraventato all’interno di un contesto che sente di non aver scelto. La curva (flessibilità) –ricordiamolo- è un evento che irrompe, qualcosa che si subisce, alla stregua di una strada obbligata: il vissuto di qualcuno espulso dal proprio territorio (il Prima del “lavoro stabile”?) e lasciato nel deserto, è evidentemente molto diverso dal vissuto del Tuareg, abituato a vivere e attraversare uno spazio nomade, dal vissuto dell’asceta o, più banalmente, dal vissuto del viaggiatore, ponendosi quale condizione istituente che, orientando il rapporto con il reale, non può essere elusa, se l’intento è quello di comprendere le linee affettive lungo cui tale rapporto si dispiega. La dimensione di “vuoto”, invece, sembrerebbe evocare un’assenza, o più precisamente, la paura di un’assenza, riconducibile al venir meno di quella sicurezza di base, rispetto all’esistenza del bene-lavoro (e, più in generale, del bene-futuro) che, come già evidenziato, segna l’ingresso nella precarietà. Ripensare l’esperienza stessa dell’orientamento significa, per chi scrive, provare a ridefinire l’assenza nei termini di uno spazio desertico che possa essere popolato, muovendo da una simbolizzazione del futuro (e del lavoro) quale bene da immaginare e creare. Tale premessa implica una messa in figura della dimensione della produzione-creazione, rispetto alla dimensione della ricerca. L’obiettivo dell’orientamento, in altri termini, potrebbe essere quello di fuoriuscire da una posizione di attesa, attraverso lo sviluppo di competenze ideativo-progettuali che permettano di “dare vita” a qualcosa, piuttosto che cercare un bene pre-esistente, a partire da una capacità di lettura del contesto, capace di riconoscerne i limiti, senza lasciarsene però schiacciare. Il vuoto dello spazio desertico potrebbe allora ospitare una possibilità creativa, capace di dar vita ad una rappresentazione del futuro quale opportunità da immaginare e realizzare.

Linea di fuga 
L’analisi del concatenamento tematico-affettivo ha avuto l’intento di iniziare a delineare alcune ipotesi conoscitive, ma, soprattutto, una possibile di linea di fuga, attraverso cui individuare una possibilità di sviluppo. Non è stata un’impresa facile, vista la pervasività di dimensioni emozionali di impotenza e passività, riflesso di condizioni di realtà che non possono essere eluse; eppure, è stato proprio il deserto, con la sua “assenza” ad aprire una breccia, lasciando intravedere una linea di fuga… Chiudiamo, allora, provando ad aprire, suggerendo una parola che manca, appunto, nel concatenamento. Questa parola è poesia: la sua etimologia rimanda al verbo greco “poieo”, “inventare”, “creare”, “produrre”; l’atto poetico, dunque, quale atto creativo che affonda le radici nella realtà. 
Verrebbe da chiedersi come mai, entro la nostra lingua e la nostra cultura, non vi sia nulla di più distante della poesia, dell’immaginazione, dalla realtà. Verrebbe da chiedersi se non sia proprio tale scissione, tuttavia, a rischiare di restituire un vissuto d’impotenza, a lasciare senza armi, rispetto alla possibilità di intervenire sul reale…






sabato 9 ottobre 2010

TERRITORIO PSICOTERAPIA

A cura di Silvia Lombardi  & Massimiliano Stinca


Vorremmo provare a raccontarci -e a raccontare le premesse teorico-metodologiche che orientano il nostro lavoro- partendo da due parole, volutamente affiancate, senza l'aggiunta di una "e": TERRITORIO PSICOTERAPIA.
Due parole che ci piacerebbe provare a far funzionare nei termini di indizi da cui muovere per liberare una molteplicità di associazioni possibili, attraverso la costruzione di una serie di connessioni: territorio della psicoterapia... psicoterapia nel territorio... territorio e psicoterapia... psicoterapia per  un territorio...

Lavorare a queste connessioni permette, a nostro avviso, di mettere in rapporto il Pubblico e il Privato -vale a dire l'intimità dei propri vissuti, delle proprie emozioni, del proprio disagio- al Fuori delle relazioni con i propri contesti di vita, a partire dall'individuazione di questioni da trattare, piuttosto che di "patologie" da curare, deficit da compensare.
L'intervento psicologico-psicoterapeutico si traduce, quindi, in una proposta di lavoro,  ed è questo che marca, a parere di chi scrive, una prima sostanziale differenza con l'intervento medico: la necessità, per i nostri clienti, di implicarsi attivamente nel percorso che andremo costruendo insieme, producendolo, piuttosto che assumendolo alla stregua di un farmaco...

Lo Studio Psicologico Psicoterapeutico intende, a tal proposito, proporsi quale Spazio entro cui offrire ai nostri interlocutori la possibilità di avviare-rimettere in moto la propria capacità progettuale, e con essa le proprie possibilità di sviluppo, a partire dall'acquisizione di una competenza a pensare le emozioni, utile a riorganizzare le proprie azioni, fuoriuscendo dalla rigidità di una scelta obbligata.
E' questo un aspetto che ci preme sottolineare, e che ci riporta al punto di partenza: Territorio Psicoterapia.
Il Territorio si configura, infatti, nei termini di quel Fuori che permette di connettere il pensiero all'azione, restituendo così al pensiero la sua componente produttiva.
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Studio Psicologico Psicoterapeutico a Garbatella

Chi siamo:

La Dott.ssa Silvia Lombardi ed il Dott. Massimiliano Stinca sono due psicologi-psicoterapeuti ad orientamento psicodinamico da diversi anni impegnati nel campo della salute psicologica.
Per salute psicologica intendiamo la possibilità, per chi si rivolge allo psicologo, di accedere ad un’area di esplorazione e comprensione di se stessi, e dei rapporti con i propri contesti di riferimento, utile alla "presa in cura" del proprio percorso di sviluppo nella vita.

Questa definizione di salute psicologica intende proporre un ampliamento dell'idea di "salute", in grado di accogliere al suo interno l’insieme dei rapporti tra il corpo, la mente e i contesti di vita.

Di che cosa ci occupiamo:Il servizio psicologico e psicoterapeutico offre, all'interno di questo studio medico, uno spazio di ascolto specialistico su questioni riguardanti la sfera emotiva e le relazioni con i propri contesti di vita (famiglia, scuola, lavoro).

La richiesta allo psicologo è sempre motivata da un problema, che può presentarsi sotto forma dei "disturbi-segnali emotivi" più vari (ansia, attacco di panico, disturbi alimentari, disturbi psicosomatici, dipendenze, separazioni, solitudine, ecc.)

Riteniamo che tale problema segnali una crisi nella fase di vita che si sta attraversando, di cui ci si potrebbe iniziare ad occupare. La possibilità di prendersi cura della propria salute, infatti, passa attraverso lo sviluppo di una competenza all'ascolto, al riconoscimento e alla presa in carico dei propri "segnali emotivi", non meno che dei propri sintomi corporei.

La scelta di situare un servizio psicologico-psicoterapeutico all'interno di uno studio medico, nasce dall'intento di offrire uno spazio all’interno del quale la crisi possa essere accolta e compresa, trattata cioè come un'importante occasione di crescita, come un problema da affrontare piuttosto che da ignorare.
Che cosa proponiamo:

Colloqui psicologici individuali e di coppia. (percorso di breve durata)
- Psicoterapia individuale e di coppia.
- Valutazione psicodiagnostica.
Il nostro lavoro si rivolge ad adolescenti, giovani ed adulti. Esso prevede una fase iniziale (3-4 incontri) di analisi della domanda finalizzata a chiarire i termini del problema proposto e a concordare con l’utenza il percorso più opportuno.

Come contattarci:Per concordare un appuntamento è possibile rivolgersi presso la segreteria dello studio medico o contattarci personalmente.
Segreteria: 06/5745464

Dott. Massimiliano Stinca: 3388916403          e-mail: massimilianostinca@virgilio.it
Dott.ssa Silvia Lombardi: 3284663309           e-mail: silvialombardi7@hotmail.com