mercoledì 17 novembre 2010

COPPIA PSICOLOGIA CON-VIVERE: CI PRESENTIAMO



 Abbiamo già avuto modo di accennare come l’obiettivo di questo blog sia quello di presentare il nostro Studio, provando a delineare le premesse teorico-metodologiche che orientano il nostro lavoro, la “visione” della psicologia clinica che sostiene ed organizza la nostra prassi.

Ci piacerebbe, in altri termini, produrre e offrire ai nostri lettori una serie di indizi, indicazioni, utili alla costruzione di una mappa capace di restituire una possibilità orientativa a quanti fossero interessati a conoscerci e/o a contattarci.

Riteniamo, infatti, che il panorama attuale della psicologia italiana ( e non solo ) sia caratterizzato da un forte livello di frammentazione, da un’eterogeneità di posizionamenti solo apparentemente “coperti” dal riferimento ad un linguaggio più o meno comune e che, dunque, possa essere rilevante ed utile sforzarsi di offrire una “visione” capace di fuoriuscire dal contesto degli addetti ai lavori, e raggiungere anche coloro che non si occupano di psicologia.

Vorremmo partire dal patchwork, il logo del nostro Studio:



Come molti sapranno, il patchwork –letteralmente lavoro con le pezze- è un manufatto che consiste nell’unione, tramite cucitura, di diverse parti di tessuto, al fine di ottenere un oggetto, per la persona o per la casa, con motivi geometrici o meno. Il patchwork, dunque, suggerisce l’immagine di un processo che va costituendosi a partire dall’unione di pezzi-parti diverse che danno vita ad un prodotto non prevedibile a priori.

Ci è parso, questo, un modo efficace e calzante per provare ad evocare l’idea del percorso psicoterapeutico, inteso quale spazio di lavoro attraverso il quale ciascuno, faticosamente, può tentare di estrarre la propria voce e produrre, condurre, la propria opera, aprendosi al riconoscimento e alla realizzazione di pensieri e possibilità impensate.

 

Ma il patchwork, oltre ad evocare la nostra visione del lavoro psicoterapeutico, ci riporta anche alle nostre storie formative e professionali, nonché all’incontro e all’intreccio tra due percorsi di vita, esitato nella costruzione di una strada comune che ha portato, passo dopo passo, alla nascita dello Studio Psicologico Psicoterapeutico. Ci sembra infatti importante sottolineare come la scelta di aprire insieme uno Studio non nasca da una mera giustapposizione di competenze ed intenti, ma da un percorso di confronto, scambio e condivisione sviluppatosi negli anni; percorso che ci ha visto divenire coppia nella vita, prima ancora che nel lavoro.

Spesso ci è stato domandato da amici, colleghi, come ci vivessimo l’essere una coppia non solo nella vita ma anche nel lavoro; un lavoro, fra l’altro, quello dello psicologo, che l’immaginario collettivo tende a popolare di considerazioni variegate, prese entro uno stato che resta ancora confuso. Se la psicologia si offre come un composto i cui ingredienti restano, per certi versi, ancora misteriosi, cosa succede quando due psicologi formano una coppia? Che miscela –che patchwork- ne salterà fuori?

Tutti noi siamo abituati a ricevere, ad entrare in contatto, con delle ricette che qualcuno prima di noi ha elaborato, rispetto alle quali si è provato nella selezione degli ingredienti, il dosaggio, l’aggiunta di un nuovo elemento. Tutti noi nel corso della giornata, condiamo continuamente i nostri momenti a lavoro, in famiglia, con gli amici, nel traffico, sulla rete, ecc.: ci cuciniamo, fuor di metafora, nella convivenza alla socialità. 
Ecco, noi due ci siamo scelti non a caso, piuttosto il caso ci ha dato l’opportunità di sceglierci e di comporci come due insiemi di ingredienti, rispetto ai quali abbiamo di volta in volta dovuto con fatica setacciare, raffinare, provare, sperimentare, costruire i nostri gusti non meno dei nostri sapori.
La formazione universitaria comune, ovvero la scelta di quel contesto professionale con il quale ci identifichiamo, ove ci sentivamo più spinti da un desiderio che potesse vedere proprio in quel luogo il trampolino dal quale spingerci per la nostra avventura, ci ha fatto incontrare, ci ha fatto amare, quello che siamo, quello che facciamo, offrendoci l’impegnativa ma appassionante possibilità di lavorare amandoci, e amarci lavorando.
Da lì in poi, la nostra avventura professionale, all’università, nella formazione, al DSM, nella Scuola, in ambito psicoterapeutico -perché è quella che qui vogliamo offrire in figura- è stata attraversata dall’impegno costante a mettere i nostri interlocutori nella condizione di rendere i problemi che ci portavano delle chances da utilizzare per sperimentare nuove occasioni di convivenza.

Convivere significa per noi scegliere e governare le linee  di insiemi di ingredienti da utilizzare per preparare forme di socialità entro un determinato contesto. La convivenza, allora, più che porsi quale punto di partenza da poter dare per scontato, si configura nei termini di un obiettivo da costruire  attraverso lo sviluppo di una competenza.
I problemi che in qualità di psicologi e psicoterapeuti affrontiamo nel lavoro, li facciamo rientrare, quindi, in questa visione politico-professionale, poiché, per quanto ci riguarda, non possiamo e quindi non vogliamo, prescindere e nasconderci da una visione che inevitabilmente, anche quando più camuffata, offriamo sempre all’esterno. Visione, quest’ultima, che in linea con i tempi offerti dalla nostra modernità ci preme affrontare criticamente nel lavoro clinico che svolgiamo, perché possano svilupparsi maggiori competenze a trattare i contenuti che popolano le nostre moderne convivenze.   

Trattare e situare le domande psicologiche dei nostri clienti entro l’area della convivenza significa quindi produrre una connessione tra il mondo interno dell’individuo (il suo Dentro) e il Fuori delle sue relazioni con i contesti di appartenenza, al fine di produrre un’apertura che permetta di fuoriuscire dalle secche della passività e dell’impotenza che solitamente caratterizzano ed organizzano una  rappresentazione del proprio problema-disagio concettualizzata nei termini di “problema psicologico”, dunque, deficit da correggere, malattia da curare, o parte malata-cattiva da eliminare.

           

mercoledì 3 novembre 2010

La psicologia produce convivenza, conduce sviluppo


a cura di Massimiliano Stinca e Silvia Lombardi

 Ciascuna professionalità, al di là del fatto di essere accomunata alle altre in funzione della propria vocazione alla vendita di uno determinato prodotto, si qualifica contemporaneamente come specifica, in quanto offre quel prodotto e non un altro. Se per alcune professioni l’oggetto della propria prestazione è chiaramente ostensibile, per altre esso si qualifica come forma di sapere in grado di determinare uno stato di realtà socialmente condiviso e legittimato. Se il meccanico quindi ripara la nostra automobile, quest’ultima si mostra come l’oggetto sul quale la sua competenza esprime nel tempo la sua forza. Se il medico cura il mio mal di pancia, attraverso il farmaco “aggiusta” la mia pancia. In questi casi, ciò che preme sottolineare è la possibilità, da parte nostra, di creare una separazione tra la cosa (l’automobile, la pancia) e “noi stessi”. Come se queste parti potessero occupare un posto esterno rispetto a noi stessi,  di cui un altro, diverso da noi, si potrà curare. La nostra funzione partecipante, in questo caso, si limita alla verifica del risultato che l’altro è stato in grado di conseguire. Verifica che, in questa circostanza, muoverà la sua indagine su due dimensioni: funziona-non funziona.
Proviamo adesso a spostarci su un altro genere di professioni. Pensiamo all’architettura, alla politica, alla avvocatura, alla psicologia. Questo genere di professioni, possono tranquillamente mettersi nell’ottica di funzionare come le professioni su indicate, anzi ad alcune di esse fa molto comodo funzionare in tal modo, con l’unica differenza di non poter disporre, nella loro prassi, di uno stato generale a monte inteso come risultato finale che inequivocabilmente si sposi bene con tutti quelli che gli si rivolgono. Avere mal di pancia a Roma o a Foligno, non fa alcuna differenza per il medico che intenda occuparsene. Lo stesso vale per la riparazione dell’automobile. In questi casi, la procedura competente può ripetere all’infinito il suo esercizio, anche se per poter ottenere il suo risultato necessita di mezzi di volta in volta diversi.
Pensiamo invece per fare un esempio all’avvocatura. Immaginiamo di schiacciare la sua vocazione ad esercitare la giurisprudenza entro situazioni complesse, su qualcosa del tipo: mi voglio vendicare. Quale sarebbe in questo caso lo stato di realtà da perseguire perché la vendetta trovi la sua risoluzione, il suo completamento? Pensiamo a quei casi di risarcimento danni, a quelli per l’assegnazione dei figli. Tutti casi questi ove, quando si tenta di piegare la richiesta entro un'economia emozionale del tipo “funziona- non funziona”, si rischia di perdere gli strati di quella realtà che articolano la richiesta stessa conferendogli la sua piena consistenza. Dal nostro punto di vista, come psicologi, sono proprio questi strati a formare la domanda alla quale provare a dare risposta, rispetto alla quale tentare una inseminazione, attraverso una relazione che sia, più faticosamente, fabbricatrice di una nuove forme di convivenza. Le professioni che abbiamo appena indicato, a cui abbiamo, per vocazione modellistica e di pensiero, affiancato la psicologia, costituiscono l’hardware ed il software della convivenza.
Produrre convivenza, è l’espressione di una forma di domanda che necessita di modelli professionali di analisi della domanda del cliente per poter essere presa in carico. Quando si legga professionalmente la domanda di un cliente come una domanda che chieda modelli altri per accedere alla propria realtà contestuale, siamo in presenza di una domanda di sviluppo
Immaginare di avere una domanda sul proprio sviluppo nella vita è più faticoso ma più pericoloso, in quanto costringe l’offerta che riceviamo a doversi inevitabilmente evolvere insieme a noi. Pensarsi come qualcuno con una domanda di sviluppo, significa configurare un orizzonte in grado di ospitare una terra incognita e flettere le proprie forze per renderle delle traiettorie. Svilupparsi, in altri termini, =catapultarsi.