giovedì 14 ottobre 2010


 
Riflessioni attorno al rapporto tra psicoterapia e salute
-Per una definizione della salute come possibilità integrativa-
  
 A cura di Silvia Lombardi & Massimiliano Stinca

Obiettivo di questo scritto è provare ad esplorare il rapporto tra psicoterapia e salute, evidenziando come questo possa declinarsi lungo linee diverse, riconducibili a differenti rappresentazioni dell'idea di "salute", nonché della funzione psicologico-clinica. Ci appare, questa, una questione importante da trattare, al fine di provare a delineare le specificità metodologiche che organizzano il nostro lavoro e, conseguentemente, la nostra proposta psicologico-psicoterapeutica.
Proviamo, dunque, a partire da alcune domande; domande che, come già accennato, non esitano in una risposta univoca e, come tale, scontatamente liquidabile. In che termini l’ambito psicologico-psicoterapeutico ha a che fare con la “salute”? E, ancora, cosa intendiamo per “salute”?
Procederemo nella nostra riflessione assumendo un vertice clinico, la cui premessa teorico-metodologica di base potrebbe essere così formulata: non esistono eventi emozionalmente neutri, dunque, i processi di conoscenza-relazione con la realtà sono sempre processi di tipo affettivo-simbolico.  

 Avvicinare la questione della salute porta in figura anche la questione della malattia, che sembrerebbe porsi quale inevitabile rovescio della medaglia, evocando un confronto tra due parti.
Mario Bertini, nel suo articolo “Psicologia della Salute e Psicoterapia,”[1]delinea due modalità di concettualizzare –e simbolizzare emozionalmente- la relazione tra queste due “aree”; aree che possono essere pensate nei termini di due diverse posizioni: una, rappresentabile sottoforma di un continuum che dal polo della normalità, scivola gradualmente verso il polo della patologia; l’altra, organizzata bidimensionalmente, con le due dimensioni della salute e della malattia “relativamente indipendenti, ma di fatto, intrecciate ed interdipendenti” [2](M. Bertini, 2001, 2008). Se la prima, dunque, suggerisce una modalità di rapporto fondata su di una logica esclusivo-disgiuntiva (presenza dell’una, assenza dell’altra), la seconda sembrerebbe aprire alla creazione e al riconoscimento di uno spazio più ampio, capace di com-prendere, accogliere, tanto la dimensione della salute, che quella della malattia.
Queste due posizioni, esitano in due diverse rappresentazioni della salute:

1) la salute come assenza di malattia
La logica esclusivo–disgiuntiva propria di tale rappresentazione- appare organizzata attorno a fantasie di eliminazione delle “parti malate”, attraverso un rafforzamento delle “parti sane”. Sulla base di tali premesse, la promozione della salute finisce per dispiegarsi lungo linee di funzionamento isomorfe a quello stesso modello medico (la malattia come assenza di salute) che, sul piano intenzionale, tale posizione dichiara di voler attraversare. La logica escludente, infatti, col suo non lasciar spazio alla possibilità di una co-presenza, finisce per schiacciare rigidamente il rapporto tra salute e malattia sul terreno dello scontro, del conflitto, anche quando viene utilizzata per lavorare sulle risorse delle persone, mettendo apparentemente sullo sfondo la questione della malattia. L’articolo di Colombo e Goldwurm, “Psicologia Positiva e Psicoterapia” (2007) si situa entro la posizione che si sta provando a delineare, offrendo ulteriori spunti di riflessione (il corsivo è nostro):

  L’emergere della psicologia positiva è avvenuto in contrapposizione al modello medico della malattia mentale e alla forte enfasi sullo sviluppo dei problemi e della loro risoluzione, caratterizzandosi per l’attenzione alle caratteristiche personali che permettono di vivere bene (…) la psicologia positiva oggi vuole superare l’antitesi tra positivo e negativo, tipica della cultura occidentale, e proporsi come una prospettiva da cui studiare l’essere umano in tutte le sue sfaccettature (…) ecco quindi che in quest’ottica è possibile applicare la prospettiva della psicologia positiva nella disabilità e nella psicopatologia, negli interventi di prevenzione e di terapia…”

 Gli autori individuano dunque nel “superamento dell’antitesi tra positivo e negativo” l’obiettivo, per così dire programmatico, della psicologia positiva, ma in che termini stanno organizzando il rapporto tra salute e malattia? Il fatto che parlino di una possibilità “applicativa” di tale prospettiva nell’ambito della psicopatologia riporta in figura l’idea di una scissione tra l’area della salute e quella della malattia, pensate nei termini di territorialità che si auto-escludono. Ma, allora, come viene concettualizzata l’idea del superamento dell’antitesi? Colombo e Goldwurn sembrerebbero dirci che la psicologia positiva, con il suo focus su risorse e potenzialità dell’individuo, può occuparsi anche di malattia, ma che quest’ultima, come vedremo, non può che essere pensata quale parte –separata- da ridurre o eliminare. Citano, a tal proposito, come “un buon esempio per la psicologia positiva”, il programma di Fordyce (1977, 1983) per incrementare la “felicità”, i cui obiettivi vengono così definiti: “ eliminare sentimenti negativi e problemi, smettere di preoccuparsi, sviluppare pensieri ottimistici e positivi, sviluppare una personalità socievole, essere orientati sul presente, essere più attivi, migliorare i rapporti intimi”. Potremmo, dunque, parlare di un’antitesi effettivamente “superata”, ma non attraversata, intendendo l’attraversamento un processo che funziona lungo linee a carattere espansivo-inclusive. La premessa teorica, trasversale ai diversi contributi presentati nell’articolo, appare organizzata attorno all’idea di risorse concettualizzate come punti di forza dell’individuo che possono contrastare lo sviluppo della patologia (Seligman, 2002), attraverso l’organizzazione di un controllo. E’ evidente la centralità rivestita dal modello cognitivo-comportamentale entro tale prospettiva: non a caso, gli autori, appartenenti a questa area, analizzano le connessioni esistenti tra psicologia positiva e psicoterapia, facendo riferimento al modello psicoterapeutico cognitivo-comportamentale. L’ancoraggio a tale modello organizza una rappresentazione dell’intervento di promozione della salute –non meno che di psicoterapia- quale “programma”, strutturato, direttivo, orientato alla soluzione dei problemi, ed educativo.  Questo ci riporta alla questione del rapporto tra la dimensione teorica dei propri modelli d’intervento, e la modalità di relazione –dunque di simbolizzazione- degli stessi. L’ipotesi che si propone, è che possa essere rilevante riconoscere e differenziare un piano intenzionale –riconducibile ad una sorta di dichiarazione d’intenti, da un livello emozionale. Riconoscere questo doppio livello, permette, in questo caso, di cogliere una rappresentazione del superamento dell’antitesi tra positivo e negativo che non propone un attraversamento di tale dicotomia, bensì immagina di affiancare l’area della salute a quella della malattia, rafforzando la prima, al fine di ridurre-controllare la seconda. Ne consegue una necessità di tipo normativo, che, attraverso l’individuazione di dimensioni valoriali, si propone di promuovere entro i contesti d’intervento –ancora una volta, anche psicoterapeutici- lo sviluppo di “dimensioni positive di salute”. 

In conclusione di questa prima parte, appare rilevante accennare alla questione del cambiamento: gli elementi che sono andati via via emergendo, entro lo scenario del “modello salute” come assenza di malattia, organizzano una rappresentazione del cambiamento quale processo trasformativo, teso al raggiungimento di uno stadio predefinito, muovendo da una simbolizzazione della salute nei termini di stato ideale acontestuale, perché dato a priori, verso cui l’altro (sia esso un singolo individuo, un gruppo, un contesto organizzativo…) è guidato-condotto.
Il cambiamento, dunque, come processualità che si tenta di prevedere/controllare, a partire da una rappresentazione dell’individuo come soggetto “attivo”, ma certamente non “autonomo”[3]. Basterà qui ricordare come la dimensione dell’attività, pur ponendosi quale superamento della passività dell’individuo teorizzata dal comportamentismo, rappresenti il polo positivo del medesimo continuum,  organizzato attorno all’idea di un rapporto individuo-contesto che si dispiega lungo le linee dell’apprendimento e dell’elaborazione dell’informazione. La dimensione dell’autonomia, invece, attiene la rappresentazione della salute che qui di seguito verrà delineata.

2) La salute come possibilità integrativa.
Passiamo  ora ad analizzare il modello di salute che chi scrive sta tentando di delineare; modello che orienta la nostra prassi d'intervento implicando, tra le altre cose, una specifica concettualizzazione del cambiamento.
La logica che sostiene ed organizza questa rappresentazione della salute si fonda su di una modalità di funzionamento che definiamo a carattere espansivo-inclusivo, esito dell’attraversamento di modalità di funzionamento a carattere “esclusivo-disgiuntivo”. In tal senso, si potrebbe concettualizzare l’obiettivo metodologico dei processi di salute proprio nei termini di un incremento della modalità di funzionamento espansivo-inclusiva. Incrementare tale modalità significa organizzare spazi –interni e reali al contempo- entro cui accettare e riconoscere anche le zone d’ombra (la “malattia”), organizzando le premesse per lo sviluppo di modalità di rapporto tra le parti di carattere integrativo. 
Si propone l’ipotesi che lo sviluppo di processi di salute così concettualizzati, non passi attraverso l’applicazione di tecniche, bensì si ponga quale esito di un processo d’integrazione che renda possibile lo sviluppo di un’ottica della salute, attraverso cui accompagnare e facilitare processualità co-costruite, sospendendo le proprie quote di potere-controllo, grazie all’emergere di una fiducia nel processo.
La rappresentazione della salute – o della malattia- quale “dato di fatto”, esita in una reificazione della stessa, trattata alla stregua di dato reale-oggettivo, rispetto al quale organizzare un controllo della sua “presenza-assenza”. Ecco che le stesse “emozioni negative”, come emerge nel programma di Fordyce, citato in precedenza, divengono quelle parti malate rispetto alle quali l’unico tipo d’intervento possibile, procede lungo le linee della riduzione-eliminazione. Ecco, inoltre, come il livello sul quale intervenire, al fine di produrre un cambiamento, non può che essere quello dei comportamenti.  
Viceversa, l’assunzione di un vertice clinico, aprendo alla possibilità di uno spostamento sul piano del vissuto, permette di sentire e pensare salute e malattia quali dimensioni emozionali rispetto alle quali organizzare un riconoscimento ed un’accettazione. Se tale possibilità può apparire, forse, più immediatamente “accettabile” sul fronte delle emozioni cosiddette “positive”, potrebbe invece non risultare così scontata sul versante delle emozioni “negative”, proprio in ragione di una loro simbolizzazione affettiva nei termini di “parti malate”.
Porre al centro del lavoro con e sulle emozioni la dimensione dell’accettazione, permette di riconsiderare il rapporto emozioni-pensiero da un vertice d’osservazione ulteriore, organizzato attorno al riconoscimento e alla valorizzazione della dimensione del sentire. Sentire che, nel suo porsi nei termini di dimensione ponte tra l’emozionalità agita e quella consapevolizzazione utile allo sviluppo di un pensiero sull’emozione, apre ad una possibilità espressiva, situabile su di un livello esperienziale. Da un punto di vista metodologico, le competenze che si sta tentando di delineare si configurano come  l’esito di un processo d’integrazione tra dimensioni esperienziali, emozionalità e pensiero.
Ecco, quindi, che lo spazio della relazione con l’altro resta sì uno spazio entro cui promuovere lo sviluppo di un pensiero, ma diviene anche uno spazio entro cui accogliere, riconoscere ed utilizzare dimensioni espressivo-esperienziali non necessariamente situabili sul piano della parola.  
Accettazione e cambiamento potrebbero apparire, almeno entro la nostra cultura, dimensioni quasi antitetiche, in ragione di una rappresentazione dell’accettazione nei termini di resa, sospesa tra la passività e lo stoicismo. Il modello d’accettazione qui brevemente delineato, rimanda, invece, ad un arrendersi che si pone quale esito dell’attraversamento di una fantasia di controllo, e quale ampliamento delle proprie possibilità di scelta, a partire dal riconoscimento dei propri limiti. L’idea di cambiamento che ne deriva, sembrerebbe “modulare” la forte enfasi sull’individuo, sul “potere” dei processi di pensiero, sul primato degli obiettivi rispetto alle processualità che li rendono possibili, organizzando un decentramento che, proprio grazie all’accettazione di un limite, apre allo sviluppo di possibilità di salute più autentiche.


[1] Bertini, M. (2007), “Psicologia della salute e psicoterapia”. In “Interazioni”, 2/2007.


[2] Bertini, M. (2001, 2007)

[3] cfr. Guerra, G. (2004), “Che cos’è un fatto clinico”, in Psychologie clinique, Nouvelle serie n.17.

[4] “Si tratta, dunque, non di cambiare la teoria psicologica al variare del contesto, bensì di disporre di un orientamento metodologico variamente compatibile con le caratteristiche del mandato e con le possibilità offerte dal contesto in cui si interviene (…) competenza che possiamo definire come capacità di promuovere un pensiero sull’accadente che consente di dare senso alla relazione (…) se si va oltre il sintomo, in ambito psicologico, non si incontra infatti la patogenesi e l’eziologia della forma morbosa; si incontra, invece, quale prima e rilevante fenomenologia, la domanda che è stata rivolta allo psicologo; una domanda che prefigura effettivamente quello che si potrà fare insieme.” (Montesarchio, G., Venuleo, C., 2005)

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